Cagliari una porta sul mare

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di Giorgio Valdès
L’articolo che segue, compreso nella rassegna stampa dell’Università di Cagliari, era stato pubblicato il 19 settembre del 2007 dall’Unione Sarda a firma di Andrea Piras, e già si parlava dei ritrovamenti subacquei nel porto di Cagliari. Ricordo che Nicola Porcu, con la sua tipica e coinvolgente foga, mi assicurava che l’area portuale, e più in esteso il tratto di mare e i compendi costieri compresi tra la Sella del Diavolo e la laguna di Santa Gilla, avevano restituito tesori archeologici inestimabili e testimonianze di frequentazioni antichissime con decorrenza dal neolitico. Mi aveva anche detto, mostrandomi le immagini dei suoi ritrovamenti a Santa Gilla e quelle estratte da una pubblicazione su Sant’Elia edita dal Comune di Cagliari nel 1990, che proprio nel porto di Cagliari, nel corso dei lavori effettuati dalla sua società specializzata, aveva individuato il tipico rifugio di un polpo contornato da piccoli ciottoli d’ossidiana che ne proteggevano l’imboccatura. Nicola era convinto che questo rappresentasse l’indizio di una frequentazione neolitica del sito e io non avevo avuto alcun motivo di dubitarne.
“ Di trasparenza non era proprio il caso di parlarne. E quel giorno era ancora peggio. Lì sotto, se non era nero scuro poco ci mancava. Ma era giallo, quel giallo-verde ancora più impenetrabile del buio come sanno esserlo soltanto le acque limacciose di un porto o una laguna oppure di uno stagno. Una cortina davanti a cui lo sguardo si ferma e l’occhio si arrende. Nicola Porcu e Michele Putzu erano abituati a muoversi in quel limo. Sommozzatori professionisti entrambi, bravi ed esperti. E come ciechi riuscivano a leggere il fondale come fosse una pagina scritta in caratteri braille. Sapevano – perché l’avevano letto sui testi sacri della Cagliari antica e perché l’archeologia subacquea l’avevano scoperta poco per volta collaborando con la Soprintendenza – che tra le banchine di via Roma di tesori sommersi ce n’erano tanti. D’altra parte i magnifici reperti sottratti alla melma del fondale dal braccio meccanico della draga “Nazario Sauro” più di sessant’anni fa erano una testimonianza concreta di quanto c’era finito nel cimitero della storia e quanto ancora doveva celarsi sotto fango e sedimenti.
Anni Quaranta, i lavori per ampliare e rendere il porto più moderno vanno avanti con buon ritmo. La benna s’infila nel fondo e pesca. Melma, melma ed acqua. Poi qualcosa accade di eccezionale. La mano di ferro porta su ben altro. Una ceramica, una terracotta, frammenti e manufatti. Teste, visi umani. Lo stop arriva categorico e i motori si spengono, nel ventre d’acciaio della Nazario Sauro. Il tesoro è una testa d’uomo di magnifica fattura. È una testa femminile in terracotta: reperti ispirati a modelli greci e datati dai ricercatori della Soprintendenza archeologica di Cagliari tra il terzo e secondo secolo avanti Cristo. La tecnica costruttiva non si differenzia da quella già conosciuta e registrata negli scavi di Santa Gilla, quando alla fine dell’Ottocento (1891-1893) Filippo Vivanet, direttore del Regio Commissariato ai Musei ed agli Scavi, riporta in superficie oggetti fittili che le analisi scientifiche sulla qualità della materia con cui erano stati plasmati rivelarono provenisse dai fanghi alluvionali della laguna. Scriveva, allora l’archeologo: “A tale uopo interessai il dottor Domenico Lovisato, professore di geologia e mineralogia nell’ateneo cagliaritano perché volesse esaminare la struttura e la composizione minerale di alcuni cocci da me opportunamente scelti. Dall’esame risultò in modo certo che i fittili, tutti della medesima pasta, furono confezionati con i fanghi alluvionali della laguna, in parte portati dal rio Mannu, la cui foce si trova non molti distante, in parte dovuti allo sfacelo delle rocce terziarie circostanti, impastati con una certa quantità di marne argillose della regione di Fangario”.
È il 1970 e l’acqua è sempre più giallo-verde davanti a Cagliari-porto. Nicola Porcu la salsedine l’ha respirata sin dalla più tenera età, dalle finestre dell’hotel Calamosca gestito da suo padre Vittorio. Sgambettava appena nei corridoi di quell’albergo affacciato sulle scogliere di calcare che aveva ospitato la regina d’Olanda, Togliatti e Berlinguer, i “rossi” della falce e martello ma anche Segni e Fanfani, i “bianchi” dello scudocrociato. E in quella baia magnifica, Nicola il giovane aveva imparato a scendere a picco per scoprire mare e segreti. Un po’ come Michele Putzu l’aveva fatto da altre parti della Cagliari sul mare.
Un tuffo dopo l’altro e da quella torbida ben presto spunta la sorpresa. Un relitto? Coperto da una collina di spessa fanghiglia? Sì, proprio una nave. I resti di una nave da carico romana di cui ora finalmente, i lavori iniziati nel 2005 e non ancora conclusi, hanno confermato l’esistenza.
«A differenza dei ritrovamenti precedenti sempre fortuiti e legati a lavori portuali, esattamente come era avvenuto durante altre occasionali scoperte come nel caso della testa di Mercurio recuperata dai sub della Marina militare impegnati nella sistemazione delle catenarie, questa volta stiamo procedendo con un vero cantiere di indagine e scavo», spiega l’archeologo della Soprintendenza, Ignazio Sanna, direttore dei lavori subacquei davanti al molo Sabaudo. Una ricerca sistematica con le metodologie tipiche della ricerca archeologica rese possibili non soltanto dalla volontà della Soprintendenza di chiarire una volta per tutte cosa si celava e si cela in quella fetta di porto, ma soprattutto dalla disponibilità e dai finanziamenti messi a disposizione dall’Autorità portuale. Un portafoglio da 130 mila euro che ha permesso fino ad oggi di indagare un tratto di fondale largo 200 metri per 180, prospiciente il molo Sabaudo che dovrà essere allungato di centoventi metri. «In effetti – dice ancora Sanna – la disponibilità dell’Autorità portuale di Cagliari è stata tale da consentire la modifica in corso d’opera del progetto di allungamento del molo per evitare di incidere negativamente sul sito sommerso. La banchina non proseguirà più per centoventi metri ma per settanta, mentre in testata saranno realizzati due pontili stretti e laterali proprio per risparmiare l’area archeologica. Altro elemento importante è stata la messa a disposizione di un magazzino sul posto per il ricovero e il trattamento del materiale recuperato nel fondale di dieci, dodici metri. Circa ottocento reperti tra cui anfore, manufatti in cui sono presenti bolli e graffiti».
Una vera montagna di terrecotte che potrebbero far parte interamente del carico del relitto romano di età repubblicana ipotizzato negli anni Settanta e ora, finalmente confermato dall’individuazione di legni dello scafo. «Lo studio di alcuni materiali ci ha consentito di ricostruire le rotte fatte da questa nave. Per esempio alcune delle anfore vengono dalle coste pugliesi e comunque da quella adriatica. Novità per la Sardegna sono emerse anche da altri elementi ritrovati e studiati. L’Isola fino ad oggi sembrava essere stata tagliata fuori dai traffici verso le Gallie e le Baleari, non è proprio così», racconta l’archeologo della Soprintendenza. «Aspetto altrettanto interessante che sta emergendo durante i nostri lavori subacquei è che grazie al cantiere e alle prospezioni stiamo in qualche modo ricostruendo l’antica linea di costa, individuando quello che in epoca romana era il pre-porto. Abbiamo trovato importanti dati sul vecchio fondale marino, la sabbia e i ciottoli, le matte della posidonia ormai ricoperte dai nuovi sedimenti».
Insomma, la storia riemerge poco per volta, dal limo sottile e impenetrabile del porto. Storia romana, di traffici e di commerci. Storia di duemila e passa anni fa che i sommozzatori dell’Ot-sub e gli archeologi della Soprintendenza guidati da Ignazio Sanna vogliono davvero riuscire a raccontare”.