Le statue menhir

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di Giorgio Valdès Riporto alcuni passi di un capitolo del volume “Ricerche preistoriche in Sardegna” (2005) in cui l’autore, l’archeologo Enrico Atzeni, si sofferma sulla descrizione di una statua menhir (figura 1), in merito alla quale egli così riferisce: “ Nel cuore dell’isola, a circa sei chilometri a NNO di Laconi, capoluogo del Sarcidano, ‘Genna Arrele’ è un piccolo altipiano pastorale alla quota di m 400 sul livello del mare, circondato da colline trachitiche che raggiungono i m 500 d’altezza con la punta del nuraghe ‘Genna Corte’….al momento della scoperta, la ‘statua-menhir’ di Genna Arrele giaceva isolata sul ciglio alla destra della stradetta di penetrazione agraria, al margine di un terreno incolto ed esattamente a m 178 a sud del bivio per Asuni….’Unicum’ sinora in Sardegna, per gli schemi morfologici e stilistici e per le componenti culturali e concettuali che la rivestono, la ‘statua-menhir’ di Genna Arrele resta in una non facile interpretazione, che solo più puntuali riscontri associativi potranno definitivamente precisare e confermare. La presenza del simbolo dei morti, nell’originale schema ‘ancoriforme’ di Oniferi che non appare altrove nell’arte schematica rupestre franco-iberica, italiana e mediterranea, porta a considerarla una divinità funeraria protettrice delle tombe….oppure la rappresentazione di un antenato o di un eroe o capo guerriero defunto, di un personaggio mitologico virile nel regno capovolto dell’al di là, raffigurato e ricordato nell’altipiano, al centro di un mondo di pastori, con un’arma che, nella forma e nella simbologia, è il segno di tempi nuovi”. La statua-menhir, che Atzeni ricorda conservata nel Museo Archeologico di Nazionale di Sassari, è assai simile a diverse altre esposte nel museo Aymerich di Laconi, molte delle quali presentano sulla superficie sia l’elemento ‘ancoriforme’ sia quel petroglifo che il celebre archeologo sardo identifica come un’arma di strana foggia “segno di tempi nuovi”. Mi permetto al proposito di esprimere un mio parere, perché se per un verso ritengo assolutamente convincente l’associazione del tridente al “capovolto” che si ritrova nelle domus di Sas Concas a Oniferi (figura 2), presumibile rappresentazione dell’anima dell’uomo che ritorna alla madre terra, non mi convince per niente l’ipotesi che la figura incisa sulla parte inferiore del monolite sia un coltello a lame contrapposte. Sono infatti del parere che un’arma del genere non sia mai esistita, soprattutto perché un pugnale con una delle due lame rivolta verso chi lo brandiva non avrebbe avuto alcun senso pratico se non per suicidarsi inavvertitamente. Vorrei tuttavia osservare come lo stesso professor Atzeni sia l’autore del volume “Il museo delle statue menhir”, edito da Delfino nell’anno 2004, dove appare anche l’immagine indicata con il numero 3, con il pugnale inserito, secondo l’autore, in una guaina ellittica. Tuttavia quello che Atzeni identifica come un fodero, potrebbe invece assimilarsi più realisticamente a uno dei segni con cui sin dal paleolitico s’indicava la vulva, come evidenziato nella tabella 4 ( http://www.ulm.edu/~palmer/ontogenyart.htm) , che se non vado errando avevo tratto dal blog di Monte Prama, per quanto non ricordi bene se l’autrice del relativo articolo fosse Aba Losi o Romina Saderi, entrambe ottime ricercatrici. In ogni caso tale interpretazione coincide perfettamente con la teoria che sostengo da tempo (condividendola con Nicola Porcu che la propone nel suo libro “Hic-Nu-Ra”), secondo la quale il “bipenne” non è altro che l’emblema del dio itifallico egizio Min, manifestazione del massimo dio solare Amon, il cui nome crittografato compare in tantissimi monili rinvenuti in Sardegna. Min era un dio androgino e i suoi emblemi (5) raffiguravano appunto un utero. Avrebbe allora un senso logico e profondamente sacrale il messaggio inciso sulla superficie delle statue-menhir, che figurerebbe l’anima dell’uomo che ritorna alla madre terra attraverso l’utero materno, dando corpo a quel concetto di rigenerazione della vita che si ripete anche nelle domus de janas, nelle tombe dei giganti, nei pozzi sacri e persino nei nuraghi.