L’UNITA’ DELL’ITALIA NON SI FA CON LE TELEVISIONI MA CON IL RICONOSCIMENTO DELLE RAGIONI, DELLA STORIA E DELLE DIVERSITA’ DEI PIU’ DEBOLI. Sta agli intellettuali sardi, soprattutto, invertire il ciclo.

di Francesco Masia

Molti sardi si stanno accorgendo di non considerare la Sardegna quando parlano di Italia e di non considerare l’Italia quando parlano di Sardegna; e riflettono sui motivi e le conseguenze di questo trovare le due entità separate.
Vorrei dire anzitutto a loro che esattamente la stessa cosa la avvertiranno gli italiani delle altre regioni, più o meno periferiche; soprattutto (questo sarà il fattore principale) quelli che per qualche motivo seguono con assiduità i temi storici ed economici dei loro territori, più o meno sacrificati alle logiche dello Stato (ciò che varrà anche entro qualsiasi altro grande Stato).

Ritengo sia importante esserne consapevoli, e non dimenticare (o riconsiderare e impegnarsi a riattualizzare) che se Roma unificò l’Italia (o quel che era) conquistandola (senza addentrarci su quanto male o bene con ciò abbia fatto, e in quale misura più qua o meno là), due millenni dopo la stessa Roma è stata conquistata da quell’Italia che ne ha voluto fare la propria capitale: questa volta, quindi, non una capitale conquistatrice e preminente, ma una capitale al servizio di una giovane nazione, la cui unità pur nelle differenze si avvertiva, da tempo, storicamente necessaria per il riscatto di tutte le sue genti.

Questo disegno i Sardi lo hanno voluto e condiviso quanto gli altri (i contrari, cioè, erano e sono anche altrove), a partire dalla Perfetta Fusione (1847), primo passo di quella che sarebbe stata di seguito l’espressione della volontà popolare nei plebisciti di annessione al Regno di Sardegna.

Certo, la nostra Fusione e i successivi plebisciti possono guardarsi con la lente d’ingrandimento (nemmeno tanto potente, è vero) per trovarvi le loro non poche macchie, come del resto sarà proprio (realisticamente) di qualsiasi processo storico (pensiamo ai retroscena delle nostre democratiche elezioni nel III millennio, nazionali e regionali; e non illudiamoci che in uno Stato Sardo realizzeremmo quegli ideali che sempre e ovunque le concrete realizzazioni hanno in larga parte tradito).

Tutto, a posteriori, sarà sempre criticabile (pensiamo all’Euro), anche quando la maggioranza (specie tra gli informati e i competenti) troverà che si è trattato di processi opportuni in quel momento storico, processi che rimane nella responsabilità di chi sopravviene implementare e aggiornare.
Roma deve essere una capitale al servizio, e se non lo è sempre sarà comunque vero che non lo è sempre neanche Cagliari per la Sardegna, né Sassari per il sassarese (e né, per dire, Venezia per il Veneto, o Trapani per il trapanese, come non lo sarà Londra per il Devon).
Tutto questo (oltre che vero, a mio avviso) sarà, concedo, idealistico; ma è esattamente quello che dovremmo ricordare a tutti e rivendicare, prima di arrivare a concludere, davanti a orecchie da mercante a fronte di questioni ben poste e sostenute (e al traguardo di un cammino di consapevolezza, non da molto appena diffuso), che allora vogliamo essere Stato per conto nostro (altra posizione, del resto, che necessita di un certo idealismo).
E pensarla così non è affatto in contrasto con tutti gli altri obbiettivi che i molti sardi suddetti si pongono: la valorizzazione (e la tutela) della nostra storia, della nostra lingua, della nostra cultura, delle nostre tradizioni, del nostro territorio.

Tutti obbiettivi cui lo Stato dovrebbe semplicemente guardare come a benedetta fisiologia; e sta a noi organizzarci (studiare, mobilitarci, … Gramsci) per imporre questa visione.

Per citare le conclusioni di Fiorenzo Caterini in “La mano destra della Storia”: “Il giorno che nei libri di testo italiani verrà riconosciuto, all’antichissima terra di Sardegna, il suo ruolo storico” (e tanto basterebbe, ma Caterini aggiunge addirittura “e ciclico di coagulo della storia patria”) “, significherà che la penisola” (e qui rischiamo si risentano i siciliani) “avrà compreso, finalmente, che l’unità del paese non si fa con le televisioni, con la manipolazione della storia e con un pensiero dominante imposto, ma con l’equilibrio territoriale e il rispetto delle diversità locali, che, insieme alla cultura, sono la vera ricchezza nazionale.”

Ciò detto, vorrei però ancora aggiungere questo: i sardi che dicono sia impensabile divenire Stato perché non ce la faremmo da soli sbagliano per due motivi, che mi piacerebbe venissero ogni volta ricordati loro.
Anzitutto, se riconosciamo di non farcela da soli avremo poco da lamentarci con chi ci tratti da ultime ruote del carro: “cosa pretendete voi … ringraziate che in qualche modo vi teniamo a galla e non vi lasciamo affondare, come sarebbe nel vostro destino se vi abbandonassimo a voi stessi”.
Il secondo luogo, avrebbero allora semplicemente ragione a staccarsi dall’Italia quanti invece abbiano la convinzione di farcela da soli: “chi ce la fa vada per conto suo e chi non ce la fa si arrangi”.
Non è così che dovrebbe funzionare in uno Stato.
E perché non funzioni così occorre, per cominciare, che nessuno, in nessun territorio, pensi che il motivo dell’unione stia nel non farcela da soli: ciascuno dovrebbe pensare che quando (e solo quando) i propri diritti non fossero rispettati dagli altri, in quel caso la via del fare da soli gli sarebbe sempre preferibile (a costo di arretrare magari nelle condizioni economiche).
Per questo serviranno ovunque classi dirigenti capaci di sottrarsi al ricatto delle soggezioni per necessità.
Gli Stati, si dice, hanno bisogno di eserciti per non dipendere da altri quanto alla propria difesa. È ancor più vero che le nazioni hanno bisogno di classi dirigenti dignitose per non dipendere dagli altri quanto al proprio governo.
E se le classi dirigenti sarde (non solo quella politica) possono sembrare sguarnite quanto al fare da soli è perché queste sono l’espressione dei sardi di oggi, ancora largamente condizionati dagli effetti della svalorizzazione della propria storia (per l’applicazione accettata del principio della mortificazione, nella perpetuazione di una costante penitenziale) che li lascia deradicati, sospesi e in balia di processi decisionali “allogeni”, funzionali a interessi esterni (“continentali”) e quindi facilmente atti a mantenere questa condizione.
Sta alla maturità e all’indipendenza degli intellettuali sardi, anzitutto, il compito di invertire questo circolo vizios
Il Paese, alla fine (questo o quello), dovrà esserne loro grato.