LA SCRITTURA IN SARDEGNA, COME LA NAVIGAZIONE?

di Francesco Masia

Quanto alla fondatezza delle diverse tesi in campo circa la presenza di scrittura in Sardegna prima dei Fenici, noi semplici interessati, appassionati, al massimo cultori, non avremo comunque autorevolezza per pronunciarci tra archeologi ed epigrafisti.

Vediamo però, da aspiranti divulgatori, qual è almeno il panorama che a oggi si presenta.

Premetterò un inquadramento generale (nella prima parte), per giungere quindi ad approfondire un punto specifico (nella seconda; pazientino i meglio preparati, ma vorrei farmi seguire dai più).

PRIMA PARTE

Mi viene da pensare a quanti, temo non pochi, magari senza rifletterci avvertono ancora la Sardegna pre-fenicia (cioè quanto vi avvenne fino a tutto il IX secolo a.C.) come un periodo, per quanto lungo, sostanzialmente omogeneo, compatto; un periodo, quindi, in cui Nuraghi e Domus de Janas, Dolmen e Menhir, si vedrebbero comunque vicini, senza guardare ai millenni che corrono tra i primi e gli ultimi, come perciò un’indistinta età dell’oro (per chi ne colga almeno qualche grandezza e il valore d’una presumibile indipendenza) o come un’indistinta età dei mucchi di pietre (per chi abbia inculcata l’idea che si stessero aspettando i Fenici ad accendere anche in Sardegna qualunque scintilla di cultura); sarà che da giovane, nel secolo scorso, io stesso dovevo pensarla, se proprio ci pensavo, in questo modo (vorrei dire nel primo), avvertendomi (sbagliando nelle premesse) più cosmopolita.

Allo stesso modo, penso, quando si parla di “scrittura nuragica” a tanti verrà da immaginarla (ad ammetterne l’esistenza, pur senza ancora concederla) come una scrittura definita, unica per tutta la suddetta “età”, e magari solo sarda.

Tutto, invece, avrà una sua profondità e diacronia, avrà cioè i suoi diversi passaggi attraverso il lunghissimo tempo cui guardiamo; e certamente registrerà influenze legate ai rapporti intercorsi con altri popoli e civiltà.

Pensiamo alla navigazione (per prendere un altro tabù della nostra Protostoria, questo ormai infranto: “i Sardi temevano il mare e per questo non navigavano”): oggi si parla di commercializzazione via mare dell’ossidiana sarda fin dal Neolitico, cioè dal VI millennio a.C.; una navigazione che pure era più rudimentale di quella poi sviluppatasi fino al periodo nuragico.

Per venire alla scrittura, si sa che ne parlano apertamente autori esterni all’Accademia (mentre appena una parte dell’Accademia inizia forse a mettersi in discussione su reperti da studiare come non ancora fatto): non pochi, ormai, assoceranno la scrittura degli antichi Sardi alle tesi, per cominciare, del Prof. Luigi Amedeo (Gigi) Sanna e a quelle di Fabio Garuti, i due nomi (se non sbaglio) più spesso accostati ai reperti sufficientemente antichi con segni grafici (altri si impegnano a studiare l’evoluzione della lingua). Questi due autori é probabile soffrano l’essere da molti considerati insieme (non è questa la sede in cui giudicare chi dei due abbia più ragioni per soffrirne), ma in realtà il loro interesse prevalente riguarda fasi molto distanti della  scrittura in Sardegna (cui entrambi danno credito):

il Prof. Sanna studia una scrittura alfabetica diciamo più matura, databile “appena” al II millennio a.C., simile ad altri alfabeti noti e riconosciuti (naturalmente attribuisce a questa scrittura reperti scritti presenti nell’isola);

Garuti si è concentrato su scritture ragionevolmente più antiche, cosiddette lineari o astiformi, ritenute (non certo solo da lui, né da lui per primo) comuni a popoli e culture del Mediterraneo occidentale e dell’Europa continentale, ma non da tutti riconosciute.

Tra i diversi reperti che presentano scrittura del tipo studiato dal Prof. Sanna (fittili -di ceramica-, litici -di pietra- e bronzei), solo uno è stato fin qui sottoposto a indagine scientifica: si tratta della navicella nuragica, fittile, di Teti, che la Termoluminescenza ha rivelato autentica (quindi, secondo le stime degli archeologi, del IX-VIII secolo a.C.). Questa navicella, tra i segni di scrittura, presenta un grafema (una lettera) che riproduce un pugnaletto nuragico a elsa gammata, di quelli presenti, tra l’altro, sul petto di tanti bronzetti figurati (quindi un segno marcatore della Sardegna e un grafema che non risulta rappresentato negli alfabeti noti, extrainsulari, ma che ha riscontri in altre iscrizioni nuragiche). I segni sulla navicella, inoltre, risultano incisi prima della cottura; sono, cioè, proprio della stessa età della navicella: questo si direbbe aver lasciato abbastanza spiazzati gli archeologi; e avrebbe dovuto fare in generale più clamore, se la società fosse meglio avvertita.

Nel suo saggio di riferimento sul tema, “Storiografia del problema della ‘scrittura nuragica’“, del 2013, il Prof. Zucca considerava ancora la navicella di Teti (consegnata agli archeologi da qualcuno che l’avrebbe trovata sulla superficie d’un campo) un reperto non affidabile; una volta appreso l’esito della Termoluminescenza, lo stesso Zucca ne ha preso atto e nel 2019 è giunto, proprio in occasione di un confronto con il Prof. Sanna, a una pubblica “retractatio” (qui dal minuto 35), quando già aveva annunciato l’impegno del nuovo Centro Internazionale per le Ricerche sulle Civiltà Egee (CIRCE, legato all’Università, con sede a Oristano) di studiare approfonditamente tutti i reperti con scrittura in Sardegna sospettabili di legami con il Nuragico.

Della navicella di Teti e della scrittura sostenuta dal Prof.Sanna (con i suoi tanti altri reperti) ho però già parlato non poche volte.

Quindi, detto quanto mi sembrava giusto ricapitolare, quello di cui in questo articolo voglio finalmente trattare riguarda in realtà l’altro tipo di scrittura, quella che si sostiene sia stata presente più anticamente in Sardegna, denominabile lineare o astiforme, rispetto alla quale ammetto una ancor più grande (se è possibile) incompetenza -al punto che non sarei nemmeno sicuro di come sia meglio chiamarla. Ma voglio trattarne perché, vedrete, anche in questo ambito sembra vi sia un caso accostabile alla navicella di Teti; un caso, cioè, che potrebbe meritare anch’esso una “retractatio”, magari con l’annuncio di un prossimo impegno a riconsiderare pure tutte le possibili iscrizioni di questo genere.

SECONDA PARTE

Delle tante iscrizioni su pietra presenti in Sardegna, sempre soggette a essere liquidate come posteriori rispetto al Nuragico (nessun esame ci dirà se una pietra sia stata incisa da Nuragici, Punici, Romani o Bizantini), si potrebbe sostenere l’antichità (ante quem, ossia “prima di”, “antecedente a”) solo di quante fossero rimaste “sigillate” fin da un’epoca certificabile antica. Ecco, qui sembra il caso di impegnarsi a diffondere più largamente che ci siamo imbattuti proprio in questo almeno in un caso, a oggi. Ne abbiamo testimonianza negli articoli  del 2017 di Salvatore Barrocu (12/02/201721/05/2017),  Ispettore della Soprintendenza e sorvegliante dello scavo presso Tula avvenuto (si desume da quanto ne scrive) non più in qua del 2007; e ancora ne abbiamo testimonianza nella pubblicazione degli atti del XIX Salone dell’Arte del Restauro e della Conservazione dei Beni Culturali e Ambientali, Ferrara 28-31 Marzo 2012, entro il quale gli archeologi Paola Basoli, Alessio Deroma, Luca Doro e Leyla Maria Saponara hanno presentato la relazione sullo stesso scavo del sito Sa Mandra Manna di Tula (a leggere gli articoli di Barrocu si direbbe che gli atti di questo convegno non fossero ancora stati pubblicati nel 2017; non riuscendo a sciogliere il dubbio, poco male, ce lo teniamo).

Veniamo così a conoscenza, oltre che delle personali e magari condivisibili amarezze sperimentate e raccontate da Salvatore Barrocu, di queste pietre incise (con modalità, vedremo, non priva di riscontri nell’isola e fuori) in un ambiente pervenutoci intonso dal XVI secolo a.C..

Facciamo parlare la dott.ssa Basoli:

«Nella parete destra del corridoio di ingresso alla muraglia i tre conci

sovrapposti istoriati si accostano con inzeppature alla lastra ortostatica, che presenta piccole coppelle sparse senza apparente ordine (…). Le pietre utilizzate per le istoriazioni hanno una superficie piana e liscia: sono in corso analisi per individuare il litotipo e l’areale di provenienza, eventuali altre figurazioni e gli strumenti e le modalità di esecuzione.

Allo stato attuale è possibile individuare incisioni lineari variamente

orientate verticalmente, motivi a graticcio, a forcella diritti e capovolti,

a tenda e piccole coppelle, che non presentano finora puntuali confronti iconografici. Istoriazioni sono note in Sardegna su massi, ripari e pareti di grotte o ipogei, lastroni di dolmen, menhir e statue-menhir, che trovano confronti nell’Italia settentrionale e nell’occidente europeo. In particolare in Sardegna incisioni lineari di Sa Mandra Manna trovano riscontro nelle statue menhir di Paule Luturru I e II (Samugheo) e in alcune ceramiche di cultura Monte Claro di Biriai (Oliena),

dove sono associate a piccole coppelle. I confronti iconografici e il contesto di rinvenimento fanno ritenere che le incisioni siano da riferire al momento megalitico dell’occupazione del sito (Cultura di Monte Claro – media età del Rame). Le istoriazioni, che facevano forse parte di un monumento megalitico, presentano elementi iconografici innovativi caratteristici dell’età del Rame, di rottura rispetto alle simbologie della cultura di Ozieri, e sembrano costituire una sorta di narrazione per immagini di vicende vissute dalla comunità, destinate ad affermare e trasmettere i valori della nuova cultura.»

Mi sembra interessante notare anzitutto che un archeologo parlerà di incisioni per segni su una superficie in cui non ravvisi scrittura, di iscrizioni quando invece ravvisi scrittura. Il termine “istoriazioni” dovrebbe indicare “figurazioni di un fatto, raffigurazioni di immagini relative a fatti storici o sacri o leggendarî”; la dott.ssa Basoli non usa il termine a caso, in quanto (come abbiamo testé riportato) conclude proprio parlando di “una sorta di narrazione per immagini di vicende vissute dalla comunità, destinate ad affermare e trasmettere i valori della nuova cultura” (quella di Monte Claro che subentra a quella di Ozieri).

Onestamente, ho il sospetto che se le stesse cose le avesse scritte uno studioso slegato da Accademia e Soprintendenze sarebbe stato preso per fantaqualcosa; ma non siamo qui, come dicevo, per pronunciarci sulla fondatezza delle tesi sostenute da chi studia.

Ci sentiamo però di evidenziare quelle che, sul piano meramente logico, ci sembrano incongruenze.

Di questa scrittura lineare o astiforme il Prof. Zucca, nel suddetto saggio del 2013 (Storiografia del problema della ‘scrittura nuragica’), scriveva:

“Un discorso a parte, da affrontare ex novo, meritano i segni astiformi profondamente incisi su elementi strutturali di edifici antichi, quali il nuraghe Losa-Abbasanta, il nuraghe Succoronis-Macomer, [tutte, n.d.r.] ipotizzate iscrizioni da Ettore Pais, Massimo Pallottino e, fra gli altri, da Gianni Atzori e Gigi Sanna [notiamo che il Prof. Zucca cita anche a proposito di questo tipo di “iscrizioni” il Prof. Sanna e non Garuti, avrà certamente i suoi motivi, n.d.r.]. Se per essi [segni astiformi, n.d.r.] rimarcassimo la filiazione da scritture iberiche, in particolare celtiberiche, come sostenuto da Pais, Pallottino e Lilliu, saremmo ricondotti a un ambito cronologico tardivo, non anteriore all’epoca tardo repubblicana [che va dal 133 al 31 o 27 a.C., n.d.r.], elemento che accrediterebbe la pertinenza delle stesse a soldati iberici nell’esercito romano, secondo l’ipotesi di Giovanni Lilliu, estesa alla iscrizione iberica di Karales. Va detto peraltro che almeno in un caso (sequenza di segni astiformi di un concio della struttura naviforme presso il nuraghe Santa Cristina-Paulilatino) è stata proposta da Ferruccio Barreca una interpretazione in ambito corsivo neopunico.”

Ecco, il Prof. Zucca sembra non dire la sua, ma alla fine (dobbiamo concludere) si tiene alle interpretazioni che riconducono queste “ipotizzate iscrizioni astiformi” al I secolo a.C. o al neopunico: come sono compatibili, però, queste datazioni, adesso, con quello che sappiamo di Sa Mandra Manna? Si può ammettere che il Prof. Zucca non fosse ancora a conoscenza, nel 2013, dei dati da Tula; e però, se così fosse davvero, che l’archeologo di riferimento sul “problema della scrittura nuragica” non fosse stato ancora informato di quella scoperta, dal 2007, sarebbe già rivelatore di una qualche distorsione.

Che le “scritture iberiche (o celtiberiche)” debbano ricondurre, poi, al I secolo a.C., non sembrerebbe più tanto pacifico. L’architetta e urbanista Valeria Putzu, studiosa delle antichità sarde (autrice del volume “L’impero dei Popoli del Mare”, Ed. Arkadia 2018), in un gruppo chiuso su Facebook aveva pubblicato il 14/06/2016 un post di comparazione tra un’iscrizione con alfabeto lineare nella Penisola Iberica e l’iscrizione definita coeva (e pressoché “gemella”) di Sa Mandra Manna: si trattava delle incisioni presenti a Boticojo, vicino a Trujillo (un’area, quella di Trujillo/Caceres, che l’autrice già teneva d’occhio in quanto, spiegava, molto ricca di elementi simili a quelli della cultura sarda e bulgara fin dal Neolitico); iscrizioni di Boticojo datate tra il bronzo antico (2500 – 2000 a.C.) e l’inizio del bronzo medio (2000 – 1750 a.C.); una datazione, se vogliamo, opinabile, fondata com’è sulla datazione delle lame che qui sarebbero, tra il resto, raffigurate (se ne parla in questo articolo, spagnolo.

Resta comunque che in Spagna questo tipo di iscrizioni sarebbe ora, almeno da non pochi autori, generalmente retrodatato (perlopiù al Neolitico).

Riprendiamo ancora dal saggio del Prof. Zucca (2013):

“Le nostre attuali conoscenze sulla ‘nascita della scrittura’ in ambito mediterraneo ed europeo attestano il focus dell’acquisizione di codici scrittori, esclusivamente nel settore orientale, da parte delle culture egiziana (intorno al 3150 a.C.), mesopotamiche (fine IV millennio a.C.), ittita (luvio geroglifico), ed egee. (…)

L’ipotesi dell’esistenza di ‘protoscritture’ neolitiche ed eneolitiche nel Mediterraneo e nell’Europa continentale, in particolare balcanica (cultura di Vinča), è, generalmente, riconosciuta come non attendibile o improbabile.”

Il Prof. Zucca conclude quindi così (l’ipotesi di protoscritture neolitiche in Europa è non attendibile o improbabile), nonostante in nota citi opportunamente opere di autori orientati in modo diverso.

Eppure le datazioni di Boticojo e di Tula, oltre alle somiglianze tra queste e altre iscrizioni (in Sardegna, in Spagna, per il Mediterraneo e in Europa), sembrerebbero suggerire di continuare a ragionarci.

Come per la navigazione, magari tra qualche anno si dirà anche per la scrittura che non doveva esserci dalla vigilia dei contatti con i Fenici, ma da molto o moltissimo prima.