Pheleseth, chi erano costoro?

di Giorgio Valdès

Nel saggio di Dolores Turchi “L’incubazione nella civiltà nuragica”, si legge quanto segue:

<<Il filosofo Filipono, nel VI secolo d.C. scriveva: “Alcuni scrittori hanno tramandato che certe persone afflitte da infermità se ne andavano lontano, presso (le tombe) degli eroi in Sardegna e si curavano; costoro quindi giacevano così per dormire per una durata di cinque giorni, dopodiché svegliandosi ritenevano che il momento (in cui si destavano) fosse lo stesso in cui si erano adagiati accanto agli eroi “. Mentre Semplicio, contemporaneo di Filopono, nel commentare lo stesso passo di Aristotele, aggiunge un’alta importante particolare: “Sino ai tempi di Aristotele raccontavano che dei nove fanciulli nati ad Eracle dalle figlie di Tespio il Tespiese, le salme rimanessero incorrotte ed integre e presentassero le sembianze di dormienti. Questi pertanto sono gli eroi (venerati) in Sardegna”. Da questo passo appare chiaro che le salme erano imbalsamate; ma perché tali eroi restassero integri e incorrotti dovevano non solo trovarsi entro templi, notizia già fornitaci da Tertuliano, ma essere anche custoditi. Vari studiosi hanno ipotizzato che questi eroi fossero deposti nelle tombe di giganti e che l’incubazione avvenisse nell’esedra di queste.>>

L’ipotesi dell’imbalsamazione delle salme e loro successiva deposizione all’interno delle tombe di giganti, sostenuta dalla Turchi, non è una considerazione di poco conto, anche se non mi risulta esistano riscontri obiettivi. O meglio, che io sappia, esiste un unico riscontro sintetizzato in un articolo apparso sulle pagine dell’Unione Sarda il 18 gennaio 2007, dove l’archeologo Piero Bartoloni, in merito ai rinvenimenti nella necropoli di Sulky a S.Antioco, così scriveva: “Come spiegare le bende che avvolgevano il capo di uno dei defunti, quasi fosse una mummia? Mai visto prima. Forse era un’usanza diffusa anche se non era stata mai trovata traccia, in quei riti e superstizioni ‘egittizzanti’ che erano molto diffusi tra fenici e punici”.

Si tratterebbe quindi di scoprire se, come sostiene la Turchi, il rituale dell’imbalsamazione fosse già in voga nel periodo nuragico quando furono realizzate le tombe di giganti e se quindi si sia protratto sino al periodo fenicio punico, come parrebbe dimostrare il ritrovamento della “mummia” di Sulky. E ‘legittima anche l’ipotesi che le “salme incorrotte” di Semplicio fossero solo frutto della sua fantasia.

Per nostra fortuna, il “negazionismo” per partito preso non appartiene al nostro dna, mentre ci stimola la curiosità di capire quali fossero le usanze dei nostri progenitori, ma anche di comprendere chi essi fossero e da dove provenissero.

Un indizio ci viene offerto dal grande archeologo Giovanni Garbini, che in occasione della scoperta di un’anfora con scritte filistee nel sito di S’Arcu ‘e is Forros a Villagrande Strisaili affermava (“Archeologia Viva” sett./ott. 2011) che il contesto archeologico a cui risale l’anfora e la relativa iscrizione (XII-VII sec. A.C.) consentono di delineare “un quadro storico-culturale della Sardegna piuttosto inaspettato, con una presenza levantina diffusa su tutta l’isola fin dal XIII sec. a.C. e interessata particolarmente alla ricerca e alla lavorazione dei metalli. I coloni fenici che s’insediarono nella costa sud-occidentale erano stati preceduti da altri Fenici che si erano affiancati ai Filistei e che come questi vivevano nei nuraghi accanto alla popolazione locale…”.

Per quanto si nutrano diverse perplessità sulla presenza fenicia in Sardegna sin da un’epoca così remota (Dimitri Baramki, curatore del museo di Beirut, affermava che i Fenici appresero la tecnica della navigazione in alto mare solo nell’XI secolo a.C., dopo la fusione con i Popoli del Mare che avevano invaso il loro territorio intorno al 1200 a.C.), diversa considerazioni meritano i Filistei: quei Pheleseth dal copricapo piumato che appaiono costantemente insieme agli Shardana quanto meno a decorrere dai tempi del faraone Ramesse II (XIX dinastia – 1279/1212 a.C.).

Pare assodato che i Filistei provenissero dalla biblica Kaftor/Keftiou, isola che secondo Giovanni Garbini si identificherebbe con Creta.

Tuttavia, è probabile che nei tempi andai il nome dell’attuale Creta fosse invece “Minous”.

Berni e Chiappelli, nel loro libro “Haou-Nebout, i Popoli del Mare”, riportano al proposito interessanti riferimenti tratti dagli scritti del celebre egittologo francese Jean Vercoutter (1911-2000), tra i quali un brano della “Stele Poetica” di Tothmose III in cui è scritto “ ho fatto sì che tu calpestassi i paesi dell’Ovest, Keftiou e Isy….”; e un altro ripreso da un testo che accompagna le raffigurazioni presenti sulla tomba del nobile Amenemheb (XVII dinastia – 1550/1291 a.C.), dove sono citati “i re del paese Keftiou e Menous”.

Brani che lasciano appunto supporre che Kaftor/Keftiou fosse ubicata ad occidente tra le isole del “Grande Verde” e che Menous/Minous/Creta fosse invece una sua colonia nel Mediterraneo orientale. Ipotesi che a sua volta giustificherebbe la provenienza occidentale dei minoici cretesi, attestata da studi genetici relativamente recenti, ma potrebbe fornire riscontro anche alle perplessità sulla terra d’origine dei Pheleset/Filistei.

Se quindi si assume che i Filistei potessero provenire da una terra occidentale (e non, come sostiene Garbini, dall’isola di Creta in cui non si è mai trovata traccia di questa etnia), la loro probabile prossimità alla Sardegna spiegherebbe la solida e duratura alleanza con gli Shardana.

Non può d’altronde escludersi che Shardana e Filistei fossero entrambi stanziati nella nostra isola, dove sono state rinvenute tracce filistee a S.Maria di Nabui (Golfo di Oristano), Macomer (l’antica Macompsisa), Serra Orrios (Dorgali) e a S’Arcu ‘e is Forros (Villagrande Strisaili).

Esistono tuttavia altri brani, sempre estratti dagli scritti di Vercoutter, in cui l’egittologo afferma che Keftiou era “un paese ricco di materie preziose, perché possedeva delle miniere, che servì da intermediario tra le regioni minerarie e l’Egitto, e ancora che ebbe numerosi e abili artigiani metallurgici”, osservando tra l’altro che il commercio di Keftiou riguardava “sia i prodotti finiti che la materia prima”.

Al proposito è rilevante osservare che la Sardegna è stata storicamente la “terra dei metalli”, primaria produttrice d’argento (argyrophleps nesos), di rame e di altri metalli e che sardi e Filistei erano notoriamente abili artigiani metallurgici.

Sempre Vercoutter scrive inoltre che “i prodotti di fattura Keftiou si ritrovano in Siria del nord così come anche a Mari. Per di più la presenza di oro e soprattutto di argento in lingotti incita a considerare il paese Keftiou come intermediario fra uno o più paesi produttori di questi metalli e l’Egitto”.

Vercoutter riporta, tra i vari prodotti minerari anche i lapislazzuli, ma la loro presenza può giustificarsi con il ruolo di mediazione assegnato a Keftiou dallo stesso egittologo francese, il quale afferma infine che l’Egitto faceva venire o andava a prendere una determinata pietra dal paese Keftiou”, che egli identifica con l’ambra, proveniente proprio da Keftiou dov’era chiamata “memno”.

Tuttavia, a proposito di questa pietra un altro grande egittologo, l’inglese sir Alain Gardiner (1879-1963) così scriveva: “può darsi che la cosiddetta ambra non fosse una resina lavorata, ma il bel minerale di un nero brillante detto ossidiana” (“La Civiltà Egizia”).

In merito a quest’ultima asserzione, credo sia interessante osservare che la pietra di cui parla Vercoutter e che Gardiner presume fosse ossidiana, poteva ragionevolmente provenire dalle cave del Monte Arci, considerato che questo minerale veniva esportato dai sardi, per via mare, quantomeno a decorrere dal VI millennio a.C.

Ma pare ci fosse un’altra usanza tipica dei Pheleseth di Keftiou: quella dell’imbalsamazione di cui si è accennato all’inizio di questo post.  A tale proposito Berni e Chiappelli, in riferimento ad un testo egizio redatto tra il 2200 e il 2000 a.C, in cui è scritto: “Certo, non si scende più verso Biblos oggi, cosa faremo per i pini destinati alle nostre mummie, grazie all’importazione dei quali i preti vengono sotterrati, e con l’olio dei quali vengono imbalsamati [i re] lontano quanto è il paese Keftiou”, citano ancora l’egittologo Vercoutter quando osserva che “Il termine Keftiou è stato qui impiegato chiaramente per designare, nella mente del redattore, l’estremo punto raggiunto dall’influenza egizia. Occorre quindi ammettere che gli scribi egizi, dalla VIII alla X dinastia conoscevano l’esistenza del paese Keftiou. Lo consideravano molto distante, ma comunque sotto l’influenza egizia visto che i re di questo paese si facevano, a loro dire, imbalsamare e che l’imbalsamazione è una tecnica puramente egizia. […]. Notiamo infine che lo scriba menziona solo l’imbalsamazione dei preti e dei re, ciò che fa risalire a un’epoca in cui la tecnica di mummificazione era ancora poco diffusa in Egitto e conferma la data antica del manoscritto archetipo.” (“Bulletin de l’Institut français d’archéologie orientale”).

Tutto ciò premesso, a costo di apparire ancora una volta “sfegatati sardocentrici” e tenuto conto che si stanno comunque esprimendo delle semplici ipotesi, è lecito domandarsi sommessamente se citando Keftiou come patria dei Pheleseth, gli antichi Egizi si riferissero proprio alla Sardegna con la quale, a parte gli scambi commerciali, forse condividevano anche particolari rituali come l’imbalsamazione.

Le foto delle tombe di giganti Sa Domu ‘e s’Orku (Siddi) e San Cosimo (Gonnosfanadiga) sono rispettivamente di Diversamente Sardi e Lucia Corda, mentre le foto dei villaggi nuragici di S’Arcu ‘e is Forros (Villagrande Strisaili) e Serra Orrios (Dorgali) sono di Nuragando.