di Antonello Gregorini
Per Condaghes è appena uscito il volume sui “Pozzi sacri”, di Massimo Rassu, con la prefazione di Augusto Mulas.
Dietro questo titolo, spesso, sono indicate ben diverse tipologie di edifici aventi la comune caratteristica di essere stati edificati per la conservazione, l’utilizzo, la distribuzione, il godimento per scopi ludici, sacrali o salutari del liquido alla base di tutti i processi vitali.
L’autore, con la perizia e il linguaggio dell’ingegnere, cerca di fare ordine e di dare risposta a domande sin qui inevase o a cui erano state offerte molteplici risposte.
Quanti sono i templi dell’acqua? “Il loro numero cresce dai 50 monumenti classificati da Giovanni Lilliu, ai 66 siti di Maud Webster, ai 76 di Ercole Contu, ai 119 di Maria Ausilia Fadda, ai 136 di Giovanni Maria Meloni e di Anna Depalmas, sino ai 300 del nostro censimento, ma che arrivano addiritura ai 400 esemplari secondo alcune raccolte…”
La differenziazione per categorie appare d’obbligo laddove esistono cisterne di raccolta d’acque piovane, manufatti di raccolta d’acque di falde freatiche per le necessità quotidiane e del villaggio, pozzi isolati e distanti dagli abitati ma serventi importanti vie di comunicazione di terra o lungo costa, edifici con importanti finiture e caratteristiche monumentali e di tempio.
Non tutto era sacro e non in tutti ci si riuniva o vi si svolgevano dei riti. L’uomo preistorico aveva le nostre stesse necessità e, verosimilmente, le sue realizzazioni erano più dipendenti dalle necessità del corpo che dello spirito, nella misura in cui queste esigenze possono essere disgiunte.
Con metodo scientifico ma divulgativo, completo di esaustive rappresentazioni grafiche, Rassu ci accompagna in questo mondo ancora non abbastanza conosciuto, dagli evidenti risvolti mistici.
Un libro che un appassionato di archeologia sarda dovrebbe leggere.