LA LEGGENDA DEL NURAGHE MANNU DI OZIERI

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di Piera Farina Sechi. Foto di Bruno SIni

 

… il suono dell’agonia rimbombava in tutta Ozieri, quella mattina del 24 gennaio del 1864.

“E chie est su mortu? (Chi è morto?)”. Domandavano i più nelle vie della cittadina.

“Anghelu Niedda!” Rispondevano!

“Oi siscuru! (oh, poveretto!)”.

Anghelu era un pastore di Ozieri, sposato e padre di due bambine, uomo religiosissimo, dedito al lavoro e alla famiglia. Aveva una piccola campagna presso la chiesa di Sant’Antioco di Bisarcio, nella piana di Ozieri, dove allevava bovini. Faceva spesso la spola tra Ozieri e la sua tanca, a cavallo! Quella mattina, mentre era quasi arrivato ad Ozieri, al galoppo, cadde, morendo sul colpo.

Correva, Anghelu, per portare del latte fresco alla primogenita, che, in quei giorni stava poco bene.

“Ei como? E comente at a fàghere Lughia a sa sola chin duas criaduras de pesare? ( Ed ora? Come farà Lucia, ora che è rimasta da sola con due figlie da far crescere?)”

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Erano queste le parole che circolavano in quei giorni ad Ozieri; una Ozieri listata a lutto. Anghelu era molto amato, la sua dipartita portò tristezza nei cuori di tutti. Per Lughia aveva inizio un bruttissimo periodo. Viveva già una vita povera seppur dignitosa; ora, però, tutto sarebbe inesorabilmente peggiorato.

Benchè oppressa dal suo dolore, Lughia dovette riprendere in mano la sua vita e quella delle sue figlie.

Remedia e Antonia frequentavano le elementari, ma il problema serio era rappresentato dal dover mandare avanti l’azienda; chi poteva aiutarla? Per ora, provvisoriamente, c’erano i suoi fratelli che le davano una mano, ma per quanti giorni? Fortuna volle che una fredda mattina dei primi di febbraio si presentò alla sua porta un giovane pastore, Antiogheddu Palmas, il quale si offrì di aiutarla nel lavoro di campagna e nel mungere il bestiame; non chiedeva danaro, ma solo un tetto e un pasto caldo! Lughia accettò.

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Nella loro tanca c’era un piccolo pinnetu molto accogliente, sarebbe stata quella la nuova dimora del “servo pastore”. Iniziò così un lavoro di ottima collaborazione tra Lughia ed Antiogheddu. I giorni, per la giovane vedova, passavano tra lacrime, dolore e tristezza infinita; l’amato marito aveva lasciato un vuoto veramente incolmabile nella sua vita.

Una notte d’estate mentre Lughia era intenta a recitare il rosario, bussarono insistentemente alla sua porta. Spaventata scese di corsa verso l’uscio, e chiese chi fosse! “Abberide, so Antiogheddu, abberide (Aprite, sono Antiogheddu, aprite)”.

“Ite b’at (che c’è?)”. Chiese Lughia.

“Devides falare luego a campagna, b’at cosas chi no mi piaghent nudda, devides bènnere! Cras a sas oto de sero benzo a bos che leare chin su calesse e gai bos fato a bìdere! (Dovete venire, accadono cose che non mi piacciono, dovete venire. Domani, alle otto di sera, vengo col calesse e andiamo a vedere)”.

“Certo!”. Rispose Lughia, mentre appariva visibilmente spaventata ” Domani alle otto io sarò qui ad aspettarti!”.

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La giovane vedova, quella notte, non riuscì a chiudere occhio; rimuginava in continuazione, non riuscendo a capire che cosa stesse succedendo nella sua tanca. Arrivarono le otto e, con la precisione di un orologio svizzero, passò il calesse guidato da Antiogheddu. I due stettero in silenzio, sino ad arrivare nella tanca.

Nel podere della vedova c’era un grande Nuraghe, chiamato Nuraghe Mannu. Una volta arrivati davanti al monumento preistorico Antiogheddu disse: “Vedete, Lughia, io ogni sera, al calar del sole vedo delle luci che illuminano l’interno del Nuraghe; è da diverso tempo che le osservo. E, non appena mi avvicino sento delle voci, voci stridule di donne che raccontano. Spariscono col sorgere del sole e si ripresentano, ogni sera, al tramonto. Io, non so, ho provato a sbirciare, di giorno, ma non c’è nessuno… oltre non sono andato, poi la padrona siete voi, spetta a voi controllare!”

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Quella notte, Lughia, stette un po’ ad osservare quella luce che proveniva dal Nuraghe e a sentire quelle voci! Le voci discorrevano tra di loro ma non si riusciva a capir nulla del loro dire. I due rientrarono ad Ozieri, non dissero una parola. Lughia tornò a casa, ma anche quella notte non dormì! Chi erano quelle donne? E che ci facevano a casa sua? E … cosa volevano da lei? Doveva saperne di più.

Lughia fece sapere ad Antiogheddu che quanto prima dovevano ritornare al Nuraghe Mannu. E così fu. Una delle sere successiva Antiogheddu passò col calesse per ricondurre Lughia alla tanca. Mentre si dirigevano verso il Nuraghe, Lughia fece promettere al pastore di non dire nulla a nessuno. Lughia scese dal calesse, si sistemò il manto in testa (lembo di gonna del tipico vestito storico di Ozieri che all’occasione fungeva da mantella) e col rosario in tasca si diresse verso il Nuraghe. Antiogheddu imbracciò un fucile e la seguì.

Entrarono all’interno del Nuraghe; le voci si facevano sempre più forti, così come le luci diventavano a mano a mano più intense. Spaventati e sbigottiti si trovarono davanti a diverse donne anziane vestite di nero che ridacchiavano sedute davanti ad “unu foghile” (un focolare) che emanava una luce fortissima. Al Centro la vedova notò un tesoro, e riconobbe diverse figure di donne morte da tempo.

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Alcune di queste le chiesero: “ite cheres? Andadinde!”

E Lughia neit: ” So bènnida a mi nde leare su meu. “.

E sas feminas, riende che macas respondeint: “inoghe non ch’at nudda de tou!”.

Lughia nde bogat su rosàriu dae busciaca e che lu lampat a subra de su siddadu nende: “OI CORO OI CORO, INOGHE ESTE SU SIDDADU, SU SIDDADU ESTE SU MEU CA MI L’AT DADU DEUS” (“Che vuoi? Vattene!”. E Lughia disse” Sono venuta a prendere ciò che mi appartiene.”. Le donne risposero “qui non c’è nulla che ti appartenga” mentre ridevano come delle ossesse”. Lughia estrasse il rosario dalla tasca e lo lanciò sul tesoro recitando: “CUORE, CUORE, QUI C’E’ UN TESORO, IL TESORO E’ MIO PERCHE’ ME LO HA DATO DIO”)

D’improvviso quelle anime infernali spariscono, le luci si spengono, mentre uno spirito bianco le va incontro e le dice: “Non farlo, Lughia, non prendere il tesoro, è maledetto! Se prenderai il tesoro ne perderai uno più grande!”.

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“Taci!” Gridò Lughia, mentre Antiogheddu, assolutamente incredulo, ammirava il tesoro. Quest’ultimo altro non era che una cassa piena di bronzetti, monili e lingotti nuragici! Ed ora? Cosa fare di quel tesoro? Ricoprirono tutto con della terra e rientrarono ad Ozieri. Il mattino successivo, di buon ora, Lughia si diresse dal parroco, Don Mariano.

Ma Don Mariano, non potè aiutarla … le disse: “Io curo le anime, non i tesori, oro e denaro appartengono al demonio!” Il parroco, tuttavia, le consigliò di andare dal notaio Soro … forse lui avrebbe potuto aiutarla. E così fu: il notaio Soro si prese l’incarico di vendere il tesoro. Egli aveva dei contatti nella lontana Svizzera dove si recò con Lughia e con il tesoro. Riuscì a vendere tutto, Lughia, da povera che era, diventò, in men che non si dica, ricchissima. Nonostante i cattivi vaticini, era felice; nel viaggio di rientro sognava di comperarsi una bella casa, una tanca più grande e di realizzare tanti altri piccoli sogni.

Ma il rientro a casa non fu quello sperato; la primogenita, che da sempre era di salute cagionevole stava malissimo. “Malattia inspiegabile” fu la diagnosi. La sera del rientro a casa della madre dalla Svizzera spirò.

Lughia si ricordò le parole dell’anima bianca, che tra le altre nere la supplicò di non prendere il tesoro, perché se lo avesse fatto, avrebbe perso un tesoro più grande.

Questa è una delle poche leggende che ancora vengono tramandate ad Ozieri. E nelle leggende, si sa, c’è molta fantasia ma anche un pizzico di verità. Vero era il tesoro, come veri i personaggi ed è vero ed ancora esistente il Nuraghe Mannu, un maestoso protonuraghe successivamente ampliato con la costruzione di varie tholos.

“E’ questo il vero tesoro per noi, un tesoro che chiede aiuto, che ha bisogno di essere rinforzato, messo in sicurezza prima che anche lui si aggiunga alla lunga lista di macerie indefinite dell’archeologia sarda; altrimenti rimarrà ‘ solo il ricordo di una leggenda dei tempi andati”

Piera

 

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