di Giorgio Valdès
Nell’anno 2012, sulle pagine della rivista “Archeologia Viva” era apparso un articolo che annunciava il Primo Congresso di Archeologia Pubblica d’Italia che si sarebbe tenuto a Firenze il 29 e 30 ottobre dello stesso anno, organizzato dal Comune e dall’Università.
L’articolo si basava sull’assunto che l’archeologia “tradizionale disciplina d’indagine sul passato”, andava finalmente ad unirsi al concetto di “pubblico”, divenendo così un formidabile strumento di sviluppo sociale. In un breve editoriale il fondatore della rivista, Piero Pruneti, scriveva così “Finalmente! Sono più di trent’anni, da quando è nata, che Archeologia Viva ha lottato per sottrarre la gestione e la finalità della disciplina a una visione aristocratica, quasi ‘privatistica’. Il bene archeologico come ‘riserva’ di studio per fortunati ‘addetti’…Una distanza siderale rispetto al concetto, finalmente formulato anche in Italia, di Archeologia Pubblica, dove la società civile diventa quello che deve essere: prima destinataria della ricerca scientifica e primo fruitore del patrimonio che gli appartiene. Ci vediamo al Palazzo Vecchio…”.
Un interessante sperimento pluriennale di Archeologia Pubblica era stato attuato attraverso una campagna di scavi che aveva interessato soprattutto l’area del nuraghe Mannu di Dorgali.
Nel 2001, in uno dei diversi articoli apparsi in quegli anni sulle pagine della stessa rivista che aveva fattivamente partecipato all’operazione, si leggeva questo commento: “ Come avviene puntualmente ormai da sei anni ci ritroviamo a fare il punto delle esperienze di scavo condotte in Sardegna dalle due soprintendenze dell’isola con la partecipazione determinante di volontari. È sempre l’Esit – Ente sardo industrie turistiche, il promotore dell’iniziativa insieme alle amministrazioni comunali interessate dalle ricerche sul loro territorio, i quali sempre meglio si fanno carico delle necessità logistiche delle varie ‘operazioni’, ed è ancora Archeologia Viva che mobilita i suoi lettori per il recupero di alcuni monumenti significativi del patrimonio archeologico sardo. Quasi tutti ci scrivono quando tornano a casa e sono lettere piene di nostalgia, di momenti che si vorrebbe interminabili, dove l’esperienza archeologica, pur fondamentale, finisce con il divenire anch’essa, giustamente, una componente di vita, insieme alla scoperta della cultura, dell’ambiente e dello spirito sardi, insomma del ‘continente’ Sardegna, del tutto inimmaginabile per chi non lo ‘prova’ da dentro.
E così, nel tempo, procedono gli scavi nella ventosa Gallura, nel nuragico e punico Sulcis, nella ‘dura’ Barbagia, ma si diffonde anche questo nuovo rapporto con l’isola, da parte di persone (ormai centinaia e centinaia) che scoprono tutto il valore di uno scambio fra il proprio mondo, sociale e culturale, che ognuno porta dentro di sé, e la realtà di un’isola, altrimenti vista come uno dei soliti ‘mordi e fuggi ’ turistici.
Ma sono gli stessi sardi che in tutto questo attingono forse i maggiori vantaggi. E non parlo di quelli, evidenti, sul piano dell’immagine e della proposta della propria terra. Dico delle vistose trasformazioni in corso nel rapporto fra le comunità locali e il loro patrimonio. Non sono poi lontani, anzi non sono neppure del tutto finiti – qui come altrove – i tempi in cui i cumuli di pietre delle antiche rovine era visti come cave di materiali da costruzione o luoghi di probabili tesori da scoprire e rivendere. Ora assistiamo invece a comunità che partecipano alle ricerche, non solo istituzionalmente con l’intervento delle proprie amministrazioni coinvolte nella logistica degli scavi, ma con la presenza, ancor più significativa, di singoli cittadini, spesso interi gruppi di studenti del paese o della città, che si rimboccano le maniche, e questa volta per difendere e valorizzare la ricchezza della memoria comune…”
Un buon risultato, per il quale va riconosciuto il giusto merito all’Esit, Ente strumentale dell’Assessorato Regionale del Turismo, (forse troppo affrettatamente soppresso) e che soprattutto rappresenta un esempio virtuoso di collaborazione tra “pubblico” e “privato” ed anche di corretto ricorso alla collaborazione di quel “volontariato” che ultimamente è oggetto di aspre critiche e di infiniti dibattiti.
Si può anche dire che la scelta del nuraghe Mannu -oggetto dell’intervento prioritario e più impegnativo- sia stata sicuramente apprezzabile per la collocazione del monumento tra il mare e la montagna, eccellenze assolute del territorio sardo.
Ma è stata soprattutto coerente con l’esigenza di promuovere una tipologia turistica destagionalizzata (o destagionalizzabile) improntata soprattutto sulla valorizzazione e promozione di un patrimonio archeologico/culturale che per la sua unicità ed originalità deve necessariamente considerato come principale attrattore di una domanda turistica oramai globalizzata.
A proposito di questo nuraghe, riprendiamo un brano della descrizione riportata sul sito della cooperativa Ghivine, da cui è tratta anche la foto panoramica che si allega: ““Le prime notizie relative a Nuraghe Mannu si hanno da A.Taramelli che nel 1927 esplorò per la prima volta il monumento. L’area ricca di un’enorme quantità di conci in basalto perfettamente lavorati e squadrati è caratterizzata dal Nuraghe che nonostante il nome è un monotorre di modeste dimensioni, costruito con grossi massi poliedrici in basalto disposti in filari irregolari, posizionato a ridosso della ‘Codula di Fuili ’, in un’area straordinaria come punto di avvistamento sull’intero Golfo di Orosei. L’ingresso, rivolto ad est, è sormontato da un architrave irregolare sopra il quale si conservano due filari di blocchi e relativo finestrello di scarico; un corridoio coperto da massi a piattabanda porta alla camera di forma ellittica che conserva due grosse nicchie rialzate. Nell’andito è presente un vano scala ad andamento ellissoidale che conduceva al terrazzo superiore. Intorno al Nuraghe si sviluppa un immenso villaggio che occupa diversi ettari, in parte coperto da crolli e da una fitta macchia di lentisco che affonda le radici fra le strutture murarie.”… ”Lo scavo ormai mostra chiaramente l’aspetto di una vera e propria città, la cui storia dovrà essere approfondita sia allargando l’esplorazione ad altri ambienti già delimitati intorno al nuraghe, sia indagando nei più antichi strati sottostanti nuragici per avere una lettura di eventuali fasi di abbandono e di riutilizzo e soprattutto per comprenderne le cause…”.