di Giorgio Valdès
“Capichera” è un toponimo conosciuto in particolare per la produzione di un ottimo Vermentino.
Ma questa zona geografica del comune di Arzachena, merita grande considerazione soprattutto per la presenza di un nuraghe complesso che prende il nome di “La Prisgiona”. Il nuraghe è stato magistralmente scavato e indagato dall’archeologa Angela Antona, che considera in particolare come esso si erga a dominio e controllo di un territorio di svariati chilometri quadrati, presentando dimensioni, complessità strutturali ed espedienti architettonici che denunciano il ruolo di preminenza nell’ambito del sistema territoriale al quale è pertinente.
In questo articolo pubblicato nell’edizione del Maggio 2009 della rivista Bell’Italia, Aldo Brigaglia descrive l’insediamento:
“Ci sono giganti che tacciono per millenni e poi, un bel giorno, risvegliati da chissà quale malìa, decidono di parlare e di rivelare i segreti che hanno tenuto nascosti per tanto tempo. È il caso del nuraghe La Prisgiona di Arzachena: un gigante di pietra che da pochi mesi, grazie agli scavi voluti dalla Soprintendenza di Sassari e condotti con pazienza certosina e rigore scientifico dall’archeologa Angela Antona, sta svelando molti dei misteri che hanno avvolto finora la singolare vicenda della civiltà nuragica. Da sempre esperti e studiosi si affannano a dipanare i misteri di una civiltà che è durata quasi 1.500 anni (dal 2000 al 500 a.C. circa) senza lasciare ai posteri, perché potessero conoscerla e interpretarla, nessuna forma di scrittura, ma soltanto le grandiose costruzioni in pietra, i suggestivi monumenti funerari e le migliaia di statuette in bronzo che ne raffigurano personaggi e situazioni. Gli scavi di La Prisgiona stanno dando uno straordinario contributo alle conoscenze, restituendo informazioni nuove sulle ragioni dell’insediamento, sulla maestosità dell’architettura, sulla società complessa che vi si è evoluta, sulle forme di economia che la sorreggevano. Nella fase della sua massima espansione, tra il 1200 e il 1000 avanti Cristo, la civiltà nuragica popola tutto il territorio isolano e ovunque, dalle sponde del mare fino alle zone più remote ed improbabili, erige le sue costruzioni in forme sempre più maestose e complesse, sino ad assumere le sembianze di vere e proprie fortezze. Il nuraghe non è più un insediamento puntuale ma uno strumento di organizzazione e di controllo del territorio. La padronanza delle tecniche metallurgiche, la ricchezza e varietà della produzione, il dinamismo nei commerci testimoniano la floridità dell’isola, che non è chiusa in sé ma dialoga con le altre civiltà mediterranee, specialmente quella micenea, dalla quale riceve apporti e stimoli determinanti. La Gallura era stata a lungo ritenuta estranea a questi sviluppi. Gli scavi in corso stanno confermando, invece, che quest’area era pienamente partecipe delle vicende culturali del resto dell’isola. Nelle vicinanze di La Prisgiona erano già conosciuti diversi monumenti nuragici di grandissima importanza e di eccezionale bellezza: il nuraghe Albucciu, le tombe dei giganti di Coddu ‘Ecchiu e di Li Lolghi, la necropoli de Li Muri, il tempio di Malchittu. Intorno al nuraghe è emerso ora un esteso villaggio composto da un centinaio di capanne circolari (ma resta ancora da esplorare la parte dell’insediamento situata a nordovest del nuraghe). Il nuraghe è al centro, impiantato su uno spuntone granitico: si compone del mastio e di un bastione con due torri e ha nel cortile interno un pozzo profondo otto metri, ancora oggi attivo. Le costruzioni rispondono a destinazioni d’uso diverse dal semplice abitare, attestando lo svolgersi di attività sulle quali si basava l’economia del villaggio. I resti di derrate e di macine parlano di coltivazione e conservazione dei cereali prodotti nella pianura circostante. I vani destinati ad attività artigianali, quali la ceramica, indicano il realizzarsi di nuovi modelli organizzativi del lavoro e della produzione. Tra gli oggetti più interessanti ritrovati all’interno del nuraghe e delle capanne va sicuramente annoverata una serie di brocchette askoidi: recenti analisi gascromatografiche effettuate su esemplari di questo tipo hanno permesso di accertare che contenessero vino, confermando l’ipotesi – avanzata da diversi studiosi – che la vite fosse in Sardegna una conoscenza antica, ben anteriore all’arrivo dei Fenici (ai quali la letteratura tradizionale attribuisce l’introduzione della pianta nell’isola). Ceramiche di uso comune (fornelli, alari, tegami, teglie, olle, ciotole e tazze) e oggetti per la filatura della lana fanno ricomporre quadri di vita quotidiana. Ossa di bovini, suini e soprattutto ovicaprini confermano le attività di allevamento, che doveva costituire la base principale dell’economia. Resti di avifauna e di cinghiale, valve di conchiglie e lische di pesci fanno capire cosa mangiassero gli abitanti: dai prodotti agropastorali a quelli provenienti dalla caccia, dalla pesca, dalla raccolta sulle rive del mare”.
(La panoramica dell’insediamento è di Heinz-Josef Lücking per Wikimapia)