La navigazione al tempo dei nuraghi

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di Giorgio Valdès

La concentrazione dei nuraghi in prossimità dei corsi d’acqua, o comunque dei compluvi, lascia supporre anche una loro funzione  di controllo dei collegamenti, probabilmente sussidiaria ad altri usi purtroppo non ancora individuati con certezza ma solo ipotizzati. E’ difatti intuitivo immaginare che in periodo nuragico, quando le portate fluviali pare fossero di molto superiori all’attuale, le vie d’acqua svolgessero un ruolo predominante nei collegamenti. In territori di regola impervi e densamente  boscati, dove il pericolo di perdersi era piuttosto concreto, fiumi e rii rappresentavano invece un riferimento certo, supportando inoltre il traffico di imbarcazioni o quanto meno di chiatte per il trasporto di merci e persone. Purtroppo non esistono ritrovamenti dell’epoca che consentano di farci comprendere con certezza che tipo di scafi venissero utilizzati, per cui l’unico riferimento è rappresentato, almeno sinora, dalle numerose navicelle di bronzo custodite nei musei e a volte nelle collezioni private.

E’ in ogni caso probabile, se non addirittura intuitivo, che le tipologie d’imbarcazioni utilizzate per il traffico nelle acque interne dell’isola fossero difformi da quelle realizzate per affrontare il mare aperto.

In un articolo del 2007, riportato in un’edizione speciale dei “Quaderni di Darwin”, l’archeologa Anna Depalmas affrontava l’argomento, osservando comunque che “in assenza di una documentazione navale diretta, è difficile ricostruire tutti i dettagli strutturali delle piccole imbarcazioni”. Dall’articolo, che riporta una sintetica disamina della “flotta di bronzo”, abbiamo tratto alcuni brani significativi:

“Nell’ambito di questa «flotta» si riconoscono essenzialmente due fogge, una a scafo largo, tendente al circolare ma con l’estremità posteriore ogivale, che si può definire «cuoriforme», l’altra a scafo più stretto, con simmetria antero-posteriore, o «fusiforme». Le navicelle a scafo fusiforme sono le più numerose e all’interno di questa classe è possibile individuare almeno quattro raggruppamenti tipologici, definiti sulla base dei criteri distintivi dei margini dello scafo, del sistema di sospensione e delle modalità di unione della protome allo scafo. Lo studio delle navicelle nuragiche permette di riconoscere insieme a elementi funzionali all’utilizzo dell’oggetto miniaturistico (peducci, anello per appendere) e a motivi decorativi e fantastici, particolari rispondenti a elementi funzionali a un mezzo di navigazione. Si tratta di scalmi, sartie, legature, battagliole, gavoni, alberi, coffe, chenischi, elementi che ci riportano a un’attenta osservazione e riproduzione delle imbarcazioni reali e che fanno emergere un’evidente familiarità dei sardi nuragici con il mezzo di trasporto marino. È possibile che le navicelle a scafo cuoriforme siano riconducibili a un tipo di chiatta a scafo largo con fondo piatto a basso pescaggio, probabilmente realizzata con giunchi, canne o ferula adatta a una navigazione nelle acque poco profonde dei fiumi o degli stagni. Per i tipi a scafo fusiforme è ipotizzabile, invece, l’esistenza di almeno due differenti modelli di riferimento idonei alla navigazione marina, entrambi con prua e poppa a spigolo acuto e a scafo più o meno slanciato, allargato al centro, caratterizzati da strutture costituite dall’incastro di tavole. Un modello sembrerebbe riconducibile a imbarcazioni senza chiglia e a carena piatta, con rinforzi di cordame esterno, teso sui fianchi per rinforzare e sostenere il corpo dello scafo. L’assenza, inoltre di qualsiasi elemento accessorio e quindi del timone porta a ritenere che la funzione direzionale fosse svolta dal remo. La presenza nell’estremità anteriore di una protome animale (o chinisco) collegata allo scafo mediante un filo metallico avvolto a spirale attorno al collo e presso l’orlo della prua è senz’altro riconducibile all’esistenza di una protome fissata sulla prua, presumibilmente mediante cordame. Differenti potrebbero essere le imbarcazioni rappresentate da un altro gruppo di navicelle con fiancate semplici, prive di nervature esterne, contraddistinte da un margine a listello sporgente che orla tutto lo scafo. Ricollegabile alla presenza del margine è anche la base triangolare del collo della protome che determina una piccola nicchia interpretabile, dal punto di vista funzionale, come un gavone di prua più o meno sviluppato. All’interno di questo raggruppamento si individuano soprattutto navicelle con scafo a sezione trapezoidale e fondo piatto anche se ve ne sono altre, più rare, con sezione curvilinea e fondo convesso. Lo scafo di queste navicelle è regolare e simmetrico e non è possibile notare alcuna distinzione di forma tra poppa e prua, ma quest’ultima si riconosce per la presenza della protome. La poppa non mostra mai un’alta ruota né una deriva, la prua non ha un’appendice a sperone o l’estremità rivoluta e non vi sono sporgenze su entrambe le estremità come di frequente si osserva in molte rappresentazioni di imbarcazioni villanoviane o egee. Le murate di queste navicelle sono, in genere, piuttosto basse anche se sono documentati esemplari con alti fianchi o con fianchi di altezza media su cui si imposta una sorta di impavesata a muro semplice o traforato che poteva avere una funzione protettiva e, al tempo stesso, costituire una sorta di murata fenestrata per il controllo della visibilità e per l’alloggiamento dei remi. La presenza in alcune navicelle di un albero al centro dello scafo appare un chiaro riferimento all’uso, in queste imbarcazioni, di un mezzo propulsivo alternativo ai remi, strumenti questi comunque indispensabili data l’incapacità degli antichi naviganti di virare di bordo e di risalire il vento. L’albero è sempre coronato da un anello di sospensione che, aldilà della funzione di appiccagnolo, potrebbe ricollegarsi anche a un karkesion di bronzo, un dispositivo adottato per incapellare gli stragli e per far scorrere le drizze del pennone della vela, ricorrente in molte raffigurazioni di ambito egeo. Molti degli alberi delle navicelle terminano con una sorta di capitello a «gola» che rientra tra i motivi decorativi propri di una produzione tipica sarda ma che, al tempo stesso, in alcuni esemplari sembra ricordare una coffa. Questo elemento accessorio all’albero oltre alla funzione principale di controllo e di avvistamento poteva anche essere utilizzato per aiutare dall’alto le manovre dell’issare e ammainare una velatura di grandi dimensioni e di notevole peso giacché la vela, realizzata in fibra di lino o di canapa, a contatto con l’umidità marina doveva risultare ancora più pesante e di difficile manovrabilità. Niente ci è dato sapere di preciso sul tipo di vela utilizzata nelle navi nuragiche, anche se si può ragionevolmente ipotizzare un elemento di forma quadrangolare che, orientato trasversalmente allo scafo o lievemente obliquo, consentiva un tipo di navigazione con andatura di poppa o, al massimo, di gran lasco. Il problema della ricostruzione dei dettagli strutturali di queste imbarcazioni è per ora irrisolto, considerata anche la mancanza di una qualsiasi diretta documentazione navale. Potremmo ipotizzare che il prototipo di riferimento fosse costruito mediante l’incastro di tavole di dimensioni più o meno piccole, come le naves sutiles della tradizione classica (Plinio, Naturalis Historiae, XXIV, 65) caratterizzate da una struttura tenuta insieme grazie a cuciture e tenoni lignei e comprovata oltre che dalle fonti anche da numerosi relitti”.

Nell’immagine tratta dalla rivista citata: Navicella da Monte Lecchesinus di Mores (Museo Nazionale G.A. Sanna di Sassari).