di Giorgio Valdès
In un articolo di Morena Deriu pubblicato sul sito “la Donna Sarda”, si parla in particolare della sacralità della Sardegna in età preistorica e protostorica. Si tratta sicuramente di un argomento intrigante che aveva avuto tra i suoi precursori il grande storico delle religioni Raffaele Pettazzoni, con il suo libro “La Religione primitiva in Sardegna”, pubblicato a Roma nell’anno 1912. Riportiamo l’”incipit” della sua prefazione per dar quindi spazio all’articolo pubblicato da “La Donna Sarda” e citato nelle premesse:
“Io fui in Sardegna nel novembre e dicembre del 1909. La stagione era molto inoltrata: Per alcune difficoltà impreviste, una importante campagna di scavo era ancora aperta: urgeva che fosse chiusa prima dell’inverno. Ricevetti l’incarico di recarmi sul luogo. Così ebbi modo di vedere e di studiare il tempio sardo scavato allora allora sulla giara di Serri; e fui presente allo scoprimento di un altro edificio megalitico sulla stessa giara. L’idea di questo libro che vede ora la luce venne là, fra la terra smossa e i massi spezzati, fra l’opera alacre e rumorosa degli scavatori che rompeva l’alto silenzio del luogo disabitato, dove solo di rado compariva, sul tramonto, un pastore vestito di pelli e sostando seguiva con gli occhi curiosamente la vicenda del piccone rivelatore della civiltà dei suoi padri….Il mio libro nacque adunque sotto gli auspici dell’archeologia. Eppure esso non è destinato più specialmente agli archeologi che ai filologi che agli etnologi. Per sua natura propria vuole essere un saggio di storia delle religioni: un tentativo di costruzione scientifica in un campo storico-religioso pressoché inesplorato come quello della Sardegna primitiva. Dall’archeologia, dalla filologia, dalla etnologia vuol trarre i materiali per comporre un quadro che mostri, possibilmente, al lettore colto quale fu la religione dei Sardi antichissimi…”.
Scrive Morena Deriu (“In esplorazione, alla scoperta dei segreti della Sardegna Sacra”):
“È possibile coniugare le certezze dell’archeologia con le ipotesi di chi cerca di svelare i segreti delle vestigia della Sardegna? La risposta è sì, a patto di valorizzare ciò che si ha. Con questo spirito l’archeologa Ilaria Montis attraversa l’Isola con escursioni, tour e laboratori, alla scoperta della Sardegna sacra. Dare una definizione di “sacro” può essere un’esperienza soggettiva, che dipende dalla sensibilità personale. Al di là dei pareri, però, «possiamo concordare nell’identificare questo concetto con qualcosa che si rispetta e onora, rendendogli la giusta importanza», spiega Ilaria. In una realtà come quella sarda, dove non esiste un censimento aggiornato e completo dei siti archeologici, visitare i luoghi che gli antichi ritenevano sacri con questa consapevolezza può cambiare (in maniera soggettiva) l’esperienza. «Per questo, di solito invito le persone a vivere il luogo dove ci troviamo, non fumando, spegnendo i cellulari, guardandoci in faccia mentre si parla, presentandoci. È un discorso di attenzione e presenza, di arricchimento reciproco». Per cogliere il sacro spesso è indispensabile comprendere i dati dell’archeologia: il perché di una datazione, il significato dei reperti, che cosa ha determinato la scelta di un posto anziché un altro. Al riguardo esistono, infatti, dati oggettivi (un pozzo sacro ha bisogno di una falda, le “domus de janas” di una parete rocciosa), ma è pure verosimile che nella scelta dei luoghi gli antichi possano essere stati mossi da motivazioni soggettive. «Forse si affidavano anche a un sentimento di “ascolto”, alla ricerca di caratteristiche che ritenevano necessarie, ma si tratta di ipotesi e non di certezze». Una delle questioni più spinose e allo stesso tempo utili per comprendere questo discorso riguarda l’orientamento astronomico di molti siti. «Si tratta di un fatto che può essere verificato con calcoli matematici e che la statistica ha dimostrato non casuale. Questo, a mio avviso, è un dato di fatto, ma sul significato preciso (religioso, cultuale, simbolico) possiamo solo formulare ipotesi, non per questo poco importanti». Il pozzo sacro di Santa Cristina di Paulilatino (costruito in modo da osservare ed enfatizzare alcuni fenomeni celesti connessi ai cicli lunare e solare) è forse il più studiato, ma esistono altri casi interessanti. A Su Tempiesu di Orune, per esempio, il sole illumina la fonte sacra solo nei giorni del solstizio e in molti nuraghi, la luce attraversa varie aperture opportunamente orientate nei giorni del solstizio d’inverno (i casi dei nuraghi Santa Barbara, a Villanova Truschedu, e Santu Antine, di Torralba, sono fra i più studiati). Alcuni siti, inoltre, sono più valorizzati per una mera casualità, legata spesso alle attuali vie di comunicazione, che li hanno resi più accessibili. Lo dimostrano, per esempio, i nuraghi Ruinas e Mereu, poco visitati, seppur di grande interesse. Il primo si trova ad Arzana, a 1200 m. di altezza. Il secondo, a Orgosolo, può essere raggiunto solo dopo diverse ore di trekking, in un bosco fitto del Supramonte. «Andare alla scoperta della Sardegna sacra è un’opportunità per tornare alle origini e ricordare princìpi semplici, validi per tutti», come per esempio che la vita viene dall’unità di femminile e maschile e che, quindi, entrambi sono “sacri”. La stessa “ziqqurat” di Monte d’Accoddi (se si accetta il parallelo con quelle mesopotamiche) potrebbe rappresentare proprio la congiunzione tra terra e cielo, tra femminile e maschile. «Allo stesso modo, l’orientamento astronomico di molti siti e l’importanza di visitarli in giorni come il solstizio, l’equinozio o il plenilunio, ci ricordano l’armonia intrinseca al cosmo e che i nostri antenati vivevano con ritmi più lenti, in connessione con i cicli naturali. E tutto questo resiste, al di là del caos apparente delle nostre vite e della società odierna».
La foto del pozzo sacro di Santa Vittoria di Serri è di Franca Giona.