di Giorgio Valdès
La Penisola del Sinis può considerarsi un vero e proprio scrigno di sorprese archeologiche, in terra, nelle prospicienti acque del mare e nelle sue lagune. Il sito di “Cuccuru s’Arriu”, ubicato appunto nella parte meridionale di questa penisola, ha restituito tra l’altro alcune statuette di “dea madre” volumetrica, di straordinaria fattura, che potrebbero certamente ben figurare nelle teche di un museo d’arte moderna (salvo considerare che risalgono a diversi millenni orsono).
In merito a “Cuccuru s’Arriu” così scrive l’archeologa Luisanna Usai nel libro “La preistoria e la civiltà nuragica” della collana “La Sardegna” a cura di Manlio Brigaglia (ed. 2011):
“…a Cuccuru s’Arriu, in territorio di Cabras, è stata scoperta anche una vera e propria ‘necropoli’. Scavi condotti nel 1979-1980 hanno portato in luce diciannove tombe, delle quali tredici sono ipogeiche, cioè scavate sottoterra, con una sola camera e un pozzetto d’accesso, quattro invece del tipo a fossa e due semplicemente inserite tra il terreno vegetale e un bancone roccioso. Le tre tipologie funerarie hanno in comune il seppellimento di un ‘singolo individuo, deposto in posizione più o meno contratta (ma in due tombe a pozzetto si conservano i resti di due scheletri).
Nelle tombe ipogeiche il defunto è sempre accompagnato da una statuina femminile di divinità e in alcuni casi da due. Inoltre accanto ai defunti sono deposti vasi prevalentemente lisci, con pochi e semplici motivi decorativi lineari.
Nella tomba meglio conservata il defunto giaceva in posizione contratta – quasi come un feto -, adagiato sul fianco sinistro, con il braccio destro ripiegato e la mano tesa verso il mento, a tenere la statuina della dea. Attorno erano deposte le offerte, costituite, oltre che dalla statuina, da quattro vasetti in ceramica e un mazzo consistente di punte di zagaglia in osso. Uno dei vasetti conteneva due valve di conchiglie, incrostate di ocra rossa, come l’intera deposizione funeraria.: è evidente il valore simbolico dell’uso dell’’ocra rossa’, il suo stretto collegamento concettuale con il sangue, e quindi con l’idea della ‘rigenerazione’ del defunto. In questa e in altre sepolture sono presenti anche numerose perline in pietra a forma di disco che per dimensioni e fattura mostrano una particolare perizia nella levigatura della pietra.
Le tombe di Cuccuru s’Arriu costituiscono al momento l’unica testimonianza per la cultura di Bonu Ighinu di sepolcri scavati intenzionalmente nella roccia. Ma certamente costituiscono un chiaro indizio del precoce apparire in Sardegna dell’usanza di seppellire i morti in grotticelle artificiali, usanza che troverà poi il massimo sviluppo nelle successive culture del Neolitico e dell’Età del Rame”.
Sempre a proposito della “Cultura di Bonu Ighinu” – che si è svolta tra il 4700 e il 4400 a.C., prendendo il nome da quello di un vasto territorio compreso tra Mara e Pozzomaggiore in cui si aprono numerose grotte tra cui “Sa ‘Ucca ‘e su Tintiriolu” (la bocca del pipistrello), oggetto di importanti indagini archeologiche e ritrovamenti- la professoressa Usai riferisce che “per quanto riguarda le analisi antropologiche i dati disponibili non sono numerosi. Esse si basano in particolare sui depositi funerari della Grotta Rifugio di Oliena e della necropoli di Cuccuru s’Arriu di Cabras” di cui si è appena riferito. Di questa necropoli, scrive l’archeologa, “sono stati studiati gli scheletri di tre individui maschili, che rispetto a quelli di Oliena si presentavano più robusti e forse anche di statura un po’ più elevata. Anche la situazione igienico-sanitaria sembra indicare migliori e più articolate condizioni di vita”.