Sardegna tra preistoria e protostoria

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di Giorgio Valdès

Il primo numero degli atti del convegno di studi “Dedaleia – le torri nuragiche oltre l’età del Bronzo”, tenutosi nella Cittadella dei Musei  di Cagliari il 19-21 aprile del 2012, riporta anche un’interessante conclusione di Mario Torelli che esamina succintamente il passaggio della società sarda dalla fase preistorica a quella protostorica.

Pur non potendosi stabilire una differenza netta tra le due dizioni, è comunque opportuno menzionare quale sia il rispettivo significato. A questo proposito sull’Enciclopedia Treccani si legge che con il nome di Preistoria si indica quel “periodo della storia delle civiltà umane contraddistinto dall’assenza di documenti scritti e studiato attraverso dati archeologici, paleontologici e antropologici”.

La protostoria, in paletnologia, è invece “il periodo più recente della preistoria di certe aree. Il termine ha un significato soprattutto metodologico e viene applicato a quelle culture ancora prive di scrittura, per le quali si hanno a disposizione, oltre ai materiali archeologici, anche documenti scritti appartenenti a popolazioni contemporanee o più recenti che vi fanno riferimento, e che sono quindi fonti indirette d’informazione delle culture protostoriche. Erodoto e Cesare, per es., danno notizie preziose sulle popolazioni cosiddette barbare dell’età del Ferro; sempre per l’età del Ferro, in Africa, è possibile avvalersi di fonti arabe, cinesi ed europee. Più genericamente, la fase più antica di un processo storico, che rappresenta un momento intermedio tra la preistoria e la storia vera e propria”.

Tanto premesso si riporta, qui di seguito, uno stralcio significativo della relazione di Mario Torelli:

“ll passaggio dall’una grande fase preistorica all’altra protostorica ha comportato un’importante trasformazione della società: quella dell’età del Bronzo appare suddivisa in piccole comunità insediate nei nuraghi, che appaiono fondate su stretti rapporti di parentela di estensione relativamente modesta e governate in forma monocratica, mentre quella dell’età del Ferro si fonda su strutture sempre di tipo patriarcale, ma assai più ampie, nelle quali tuttavia i rapporti di parentela risultano meno determinanti ai fini della divisione del lavoro. Questa fase è infatti incarnata dalle “capanne delle riunioni”, segnale dell’affiorare di  nuove  forme  di  organizzazione  della  produzione  e  della  costruzione del  consenso all’interno di «assemblee degli anziani»: l’altro pilastro socio-politico e ideologico è costituito dall’affermazione di complessi santuariali, che presuppongono solidarietà più vaste del villaggio e disegnano i contorni di articolazioni tribali. Con i nuraghi fisicamente in rovina, la “nuova società” tuttavia riconosceva nella precedente fase del Bronzo il proprio momento fondante: trasformandosi, come si è potuto riscontrare in più di un caso, in luogo di culto di natura ancestrale, il nuraghe acquisiva una fortissima valenza simbolica, incarnazione degli antenati e quindi fonte di ogni potere, come peraltro era ipotizzabile anche soltanto dai bronzetti votivi con rappresentazione schematica di nuraghe. E’ assai istruttivo il caso del nuraghe Palmavera, nel quale la “capanna delle riunioni” aveva al centro un modellino litico di nuraghe, dello stesso tipo restituitoci in più repliche scoperte fra i materiali dello straordinario complesso di Monte Prama: a Monte Prama il modellino litico potrebbe rappresentare il sema delle sepolture dei capi del lignaggio, mentre i betili potrebbero riferirsi ad individui dotati di poteri sacerdotali. L’esempio, per così dire, estremo dell’uso simbolico dell’immagine del nuraghe è quello offerto dall’ambiente e del nuraghe Su Mulinu di Villanovafranca trasformato in santuario, al centro di intense frequentazioni, che giungono fino ad epoca tardoromana. All’interno dell’ambiente è stata collocata una vasca per immersioni rituali, accostata per due lati alle pareti: al centro del lato breve della vasca era inserito un modello litico di torre di nuraghe, mentre sull’orlo del lato lungo erano originariamente in-fissi alcuni stocchi o spade di metallo. Il singolare apprestamento era destinato con tutta evidenza alla celebrazione di un rito di passaggio maschile: come accade, sia pur con un diverso assetto, nel villaggio di Sa Sedda ‘e sos Carros di Oliena, gli iniziandi ricevevano l’acqua a caduta dall’alto, che nel caso di Villanovafranca veniva fatta passare attraverso un canale inserito nel modello litico di torre di nuraghe che spuntava dall’orlo della vasca. Agli occhi di chi frequentava il santuario, il passaggio dell’acqua attraverso questo piccolo canale inserito  nel  coronamento  del  modello  di  nuraghe  si immaginava  facesse  trasmigrare nell’iniziando la legittimità, la forza e l’auctoritas che promanavano dall’immagine della costruzione, che simbolicamente incarnava tutti i valori di cui gli antenati erano titolari. Ma è anche interessante l’intervento messo in atto in tarda epoca (IV secolo d.C.?): la vasca è stata riempita e chiusa con un muro che raggiunge il soffitto dell’ambiente al chiaro scopo di defunzionalizzarla. Penso che si debba ascrivere il brutale intervento alle campagne condotte dalle autorità cristiane contro il pervicace attaccamento dei Sardi alle pratiche pagane lamentato dalla celebre lettera di Gregorio Magno. Un buon esempio di queste frequentazioni di strutture di epoca nuragica con finalità cultuali pagane, registrate alle soglie del medioevo, è quello restituito dal nuraghe Cuccurada (Mogoro), illustrato da R. Cicilloni nel nostro convegno, dove una stipe di sicuro significato pagano sembra affiancata (o sostituita?) da deposizioni di evidente orizzonte cristiano.

La foto della struttura rituale di Sa Sedda ‘e sos Carros ad Oliena è di Lucia Corda.