di Giorgio Lecchi
parte sesta e ultima. Fonti
Proponendo una chiave di lettura del rituale funerario precedentemente descritto, si ritiene che gli inumati sconnessi possano rappresentare il defunto nella sua definitiva condizione di morto, socialmente accettato dalla società4. È l’aspetto conclusivo del rito di passaggio che veniva praticato dalle comunità rinaldoniane per sancire il cambiamento da una condizione di vivo a quella di morto, effettuato mediante lo sconvolgimento delle ossa che poteva avere lo scopo di rappresentare la perdita totale dell’identità individuale del defunto.
Va comunque tenuto presente che alcuni inumati restarono in connessione anatomica, senza mai essere manomessi. Resta impossibile comprendere la motivazione, o meglio le motivazioni, che possono intersecarsi: personaggi socialmente differenziati, estensione del segmento di parentela, abbandono del sito.
In alcuni casi è stata riscontrata la riapertura della cella al fine di effettuare particolari trattamenti sui resti dei defunti: l’inumato di sesso maschile della tomba 20 di Ponte San Pietro presentava il cranio colorato da tracce di cinabro, a testimonianza di un intervento sullo scheletro praticato quando il processo di scarnificazione era già avvenuto. Eppure in questo caso (come anche in altri, individuati nelle varie necropoli esaminate) si scelse di non spostare i resti dell’inumato, lasciandolo in connessione anatomica. In questi casi è probabile che gli inumati restassero in connessione anatomica, quindi, per evidenziarne una posizione diversa rispetto agli altri: questa, oltre ad essere posta in evidenza dall’eccezionalità degli elementi di corredo, poteva trovare ulteriore conferma nell’adozione di un rituale funerario diverso.
Se si considera il totale degli inumati deposti nelle varie necropoli, piuttosto basso rispetto a quello che doveva essere il numero degli individui delle comunità rinaldoniane, tenendo presente anche l’ampio arco di tempo in cui furono utilizzate, si può affermare che queste aree sepolcrali erano destinate ad un’esigua parte della società, probabilmente gruppi o individui che dovettero godere di particolare prestigio. Per gli altri è possibile ipotizzare un altro tipo di sepoltura: potrebbero essere stati deposti in altre tombe non ancora individuate, oppure sottoposti a trattamenti diversi, quali per esempio l’esposizione dei corpi all’aria aperta, in aree destinate a tale scopo.
Un altro aspetto del rituale funerario di complessa interpretazione è rappresentato dal trattamento e manipolazione dei crani. Sia nell’inumato maschile in connessione anatomica della tomba 20 di Ponte San Pietro che in quello della tomba 15 della Selvicciola, è stato riscontrato lo spostamento intenzionale del cranio, eseguito in un secondo momento, quando il processo di scarnificazione era completo.
In almeno due casi, nella tomba 25 di Ponte San Pietro e 5 di Poggialti Vallelunga, è testimoniata l’asportazione del cranio.
Un’altra pratica attestata è quella relativa alla colorazione del cranio eseguita con il cinabro attestata sul maschio adulto della tomba 20 di Ponte San Pietro e sul cranio proveniente dalla tomba tarquiniese di Bandita San Pantaleo (Barich et alii 1968). Tra le tombe prese in esame queste sono le uniche in cui è testimoniato l’uso di tale azione rituale, attestata anche nell’ambito del Lazio meridionale, come evidenzia l’inumato rinvenuto nella tomba di Sgurgola.
L’uso di manipolare i crani, sottoponendoli a trattamenti rituali come quello della colorazione con cinabro, potrebbe rientrare in quella serie di interventi sui resti umani precedentemente deposti, in cui tuttavia si potrebbe cogliere la volontà di caratterizzare il singolo individuo anche in una fase avanzata del rituale.
Rientra nella complessità delle pratiche rituali anche la deposizione del cane nelle strutture funerarie, attestata nella tomba 20 di Ponte San Pietro, associato ad una coppia di inumati adulti e deposto fuori della tomba, nei pressi dell’ingresso.
Riguardo alla pratica di sacrifici umani nella cultura di Rinaldone, invece, non credo che vi siano conferme dalle analisi effettuate nel corso di questo studio: il caso della vedova della tomba 20 di Ponte San Pietro, il cui cranio presentava una frattura al momento della scoperta, potrebbe infatti essere ricondotto ad una conseguenza relativa al crollo della volta, piuttosto che all’uccisione intenzionale della giovane donna in seguito alla morte del marito. Dal momento che costituisce un caso isolato nelle necropoli prese in esame, ritengo possibile ricondurre la frattura cranica ad un fatto casuale e accidentale, anziché intenzionale e rituale.”
Vengono ripresi i vari momenti del rito di passaggio proposti dall’antropologo belga Arnold Van Gennep (Les rites de passage, 1909) per il quale tutti i “riti di passaggio” si dividono in tre momenti principali: separazione, margine ed aggregazione. Secondo lo studioso era quella centrale ad avere maggiore importanza, in quanto permetteva di ridurre l’aspetto traumatico del passaggio dal distacco da una determinata condizione (vivo) all’integrazione in un’altra categoria sociale (morto).
Nello svolgimento di questi riti veniva riservata particolare attenzione al trattamento del corpo del defunto, la cui cura veniva messa in relazione con la cura e la reintegrazione dello spirito all’interno della società.
Sulla base di questi studi etnologici ritengo che si possa prendere in considerazione l’ipotesi che anche il rituale funerario praticato dalle comunità rinaldoniane potesse essere basato su tre momenti distinti. Immediatamente dopo la morte fisica, il defunto veniva deposto nella tomba in posizione fetale, e si dava inizio alle esequie.
È probabile che durante queste venissero praticate offerte, probabilmente, di liquidi, contenuti in un vaso a fiasco che veniva posto accanto alla testa dell’inumato. Al termine di questa prima fase (separazione) si procedeva alla chiusura della tomba.
Solo in una fase successiva, durante un periodo di tempo che doveva permettere la completa scarnificazione dello scheletro (margine), si procedeva alla riapertura della tomba e all’esecuzione della terza fase del rito, quella della sistemazione definitiva dei resti del defunto.
Questi venivano raccolti con cura, a volte praticando una selezione che riguardava ossa lunghe e crani, e ammucchiati presso una delle pareti della cella, generalmente quella di fondo.
Particolare attenzione veniva rivolta ai crani, generalmente posti a soprastare il gruppo di ossa, rappresentazione simbolica dell’antenato defunto. Portata a compimento questa ultima fase del rito (aggregazione), lo spirito del defunto trovava il suo inserimento nella comunità, nella nuova condizione. La considerazione degli sconnessi come espressione di una nuova condizione ultraterrena, potrebbe spiegare”
Oltre a ciò a testimonianza del filo rosso che lega queste civiltà da est a ovest sono gli oggetti ritrovati, tra cui il vaso a fiasco,le asce a martello, il bipenne, armi in rame con valore simbolico, la selce e diversi altri reperti.
Nel territorio della valle del Fiora è presente il tufo, roccia vulcanica di facile lavorazione, le tracce lasciate sulle rocce dalla cultura di Rinaldone sono molteplici, molte sembrano avere relazione con l’astronomia come le tante coppelle e altre lavorazioni rupestri rinvenute nel territorio tosco-laziale, altre con il culto della fertilità e delle acque, come “la Grotta dell’Utero” (incisioni su pareti a strapiombo, fosso della Nova).
Nel 2004 in localita’ Poggio Rota lo studioso Giovanni Feo scopri’ quella che, in seguito, fu chiamata la StoneHenge italiana, un circolo di enormi pietre, orientate, astronomicamente, verso costellazioni tra cui Sirio, stella polare, solstizi ed equinozi con richiami alla dea madre, al toro, alla falce lunare; sono state trovate canalette e coppelle proprio come nella tomba sarda vista in precedenza, forse, come per essa, per svolgere lo stesso rito scarnificatorio.
Sempre nei paraggi, troviamo dei monumenti che lasciano senza fiato l’ignaro visitatore, queste sono le” fantomatiche “mura ciclopiche, sono presenti, per rimanere in territorio Rinaldoniano, a Orbetello, a Cosa, ma anche in molte altre localita’, tra cui Alatri di cui parleremo piu’ avanti, monumenti che vengono ,in genere, attribuiti, con enorme sconcerto di diversi studiosi che hanno visitato le mura nel corso dei secoli, ai romani, ma che ,non hanno nulla a che fare con la loro maniera di costruire.
Sono definite anche pelasgiche o ciclopiche del tutto simili a quelle di Tirinto, Micene e Hattusa(siamo nell’eta’del bronzo), opere che gli antichi, la mitologia e le storie popolari attribuiscono a dei giganti.
Alcuni studiosi intendono la parola “ciclopico” come un’attributo di un popolo che fece grandi imprese quindi anche “gigante”con quell’accezione, ma qui come in Sardegna e in Asia abbiamo entrambe le cose, uomini grandi sia di statura fisica che intelletuale.
Tiriamo, un’attimo, le somme: dall’epoca neolitica, probabilmente, dopo vari sopraluoghi, gruppi che io definirei ProtoPelasgi e Prototirreni, dall’Asia, attraverso le isole greche come Lemno ,Imbro, Syros, a nord e Cipro Malta a sud, nonche’ dall’ellesponto, anche con migrazioni via terra verso l’europa del nord, approdo’ sulle coste sarde e laziali alla ricerca spasmodica di rame e, successivamente, di stagno ,ma anche di terre ricche di acqua e coltivabili(alcuni luoghi privilegiati sono vicino a paludi).
Qui si svilupparono le civilta’ di Rinaldone ,del Gaudo, di Remedello, dei Pre Nuragici(Bonu-Ighinu, Ozieri, Monte Claro, Filigosa,ecc..)e, guarda caso ,circa nel 2000 A.C., si interruppero tutte bruscamente, proprio quando prese il potere del Mediterraneo la civilta’ Minoica e comparvero i fantomatici e, per me, fantasiosi popoli “indoeuropei”
Proprio in questo periodo, detto protopalaziale, I cretesi con a capo iI mitico Minosse conquistarono le isole cicladiche, scacciandone il popolo come lo stesso Tucidide ritiene.
Erodoto pensa che siano I Cari originari della Caria, in Asia, essi furono I famosi Lelegi sudditi di Minosse, abili navigatori che in quel tempo abitavano l’Anattoria da Anatte o Anax(che vuol dire anche comandante, ricorda il wanax miceneo) figlio di Urano e Gea la madre terra, un’elemento che congiunge I giganti rinaldoniani ai cari.
Altri intrecci di miti e leggende dove, quasi sempre si nascondono tracce di verita’ storiche, il mito continua, secondo Pausania con il figlio di Anatte, Asterio, altro gigante che venne ucciso da Mileto, generale di Minosse che, quando fu disseppellito, dicevano misurasse 10 cubiti(10mt).
Proprio a Mileto, I recenti scavi ci dicono delle varie fasi dell’ossidiana del tardo calcolitico, delle figurine cicladiche dell’omonimo periodo e, a cominciare dal 2300A.C.,della ceramica minoica, il tutto a testimoniare la continuita’ e i vari passaggi tra I diversi popoli di etnia simile perche’ tutti egeo/anatolici/mesopotamici, ma che testimoniano anche possibili migrazioni dovute a guerre per il predominio territoriale.
Queste storie sono presenti anche in diverse parti del mediterraneo ,dalla Sicilia, alla Sardegna, alle Baleari.
Popoli che hanno come simboli la dea Madre, il toro, che sono esperti navigatori, metallurghi ed astronomi, storie come il mito della Gigantomachia, lo scontro tra il gigante Gerione re di Tartesso ed Ercole, che combattera’ in Italia con Caco, altro gigante figlio di Efesto dio metallurgo,
Norax figlio di gigante e di un dio, fondatrore della sarda Nora,
Stirpi di giganti e Atlantidei sparsi per tutto il mediterraneo e, in tutto cio,’ troviamo sempre delle corrispondenze archeologiche perche, dove nelle tombe dei giganti sono state trovate ossa di dimensioni ragguardevoli, come testimonia lo studioso gesuita Antonio Bresciani’, alla cultura di Filigosa Abealzu (3200- 2700 a.c.), corrispondono ceramiche ta cui il vaso a fiasco, gia’ citato precedentemente, ritrovate a Monte d’accoddi nella capanna dello stregone del tutto simili a quelle Rinaldoniane e del Gaudo.
Persino nella bibbia sono nominati I giganti : gli Emim, gli Zamzummim, gli Anakiti che hanno come capostipite Anak nome simile all’Anax Cario.
In Toscana e Lazio abbiamo pubblicazioni di Francesco Nicosia(sovrintendente di Toscana e Sardegna ) dove si parla di scheletri di piu’ di 2 mt nelle tombe ad uovo rinaldoniane e a Spoleto, nella tomba della biga, furono rinvenuti altrettanti reperti.
Annio di Viterbo, antico storico(ritenuto fantasioso scrittore) ma anche George Dennis parlano di scheletri di enorme dimensioni ritrovati a Saturnia ad Orbetello, gia’ citata in precedenza per la presenza di mura ciclopiche, mura che andrebbero studiate in modo piu’ approfondito e che testimoniano un periodo che si rispecchia in altre strutture megalitiche, tra cui le mura di Monte Baranta in Sardegna, le tombe dei giganti, gli stessi nuraghe costruiti in epoche diverse proprio perche’ queste civilta’ sono millenarie.ed hanno un filo conduttore sia etnico che culturale.
Le pedras fittas, I betili, i dolmen, i menhir, hanno, secondo me, origini comuni , da civilta’che avevano un contatto privilegiato oserei dire, simbiotico con la madre terra e con vari suoi aspetti. Le pietre erano uno di questi, perche’ le pietre la rappresentavano, erano vive e mettevano in comunicazione energie telluriche con quelle celesti, cosi’ che, quello che l’uomo di allora vedeva nel cielo, era quello che ritualizzava, sacralizzava in terra, tramite queste costruzioni.
Altro aspetto delle piedras fittas, dei betili e’ il rappresentare il pene eretto, simbolo si’ di forza fecondativa ma anche simbolo per orientare quella parte di territorio verso il cielo e comunicare con la madre terra, rendendo partecipe del tutto l’uomo che vi risiedeva.
Infine ritorniamo al simbolo del 3 e del “fallo” di cui abbiamo appena discusso e visto diverse immagini di tempi assai remoti perpetuatosi in altre successive civilta.
Parlando di betili,di coppelle, di circoli di pietre e di altri monumenti, il numero 3 e il fallo ricorrono molto spesso( presi singolarmente o uniti)sia vicino a domus de Jana,sia a tombe di giganti, oppure negli interni dei nuraghe stessi.
Volevo terminare con un parallelo di un luogo gia’ visitato, costruito, secondo la mitologia, dai giganti ciclopi.
Alatri.
Sulle possenti mura sopra porta Minore sono scolpiti 3 falli, vicino a Porta Maggiore invece sono presenti 3 nicchie, all’interno dell’acropoli e’ rappresentata la triplice cinta.
Questi ed altri simboli ricorrono di continuo dove passano queste genti, non voglio dilungarmi oltre sul significato di cui, molti altri, hanno gia’ dato le piu’ disparate interpretazioni, dalle 3 divinita’ principali mesopotamiche a quelle egizie al ciclo di vita, morte e resurrezzione, alle tre vie celesti mesopotamiche, allla cintura di Orione e chi piu’ ne ha piu’ ne metta, ma volevo solo suggerire che gli indizi sono tanti, troppi, per non essere valorizzati, studiati un po’ di piu’ e per non dire che ci sono correlazioni tra questi popoli che abbiamo tolto, per un’attimo, dalle nebbie del tempo.
Fonti:
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Il paese dei tirreni. Serona Toveronarum Claudio De Palma Editore: Olschki Collana: Accademia La Colombaria. Serie studi Anno edizione: 2003
Prima degli etruschi: i miti della grande dea e dei giganti alle origini della … di Giovanni Feo
Risultati immagini per GIOVANNI FEO PRIMA DEGLI ETRUSCHI Prima pubblicazione: 2001
Massimo Pittau:”Origine e parentela dei Sardi e degli Etruschi“ – saggio storico-linguistico, Sassari, 1995
2004_ 2_ ALESSANDRA TORRESI_ Le necropoli eneolitiche rinaldoniane fra l’Albegna e il Marta- Analisi
Negroni Catacchio Pastori e guerrieri nell’Etruria del IV e III millennio a. C. La cultura di Rinaldone a 100 anni dalle prime scoperte N. (cur.)Editore: Mur Collana: Atti Incontri studio preistoria e arch. Data di Pubblicazione: 2006 Genere: storia del mondo antico. Archeologia
L’Alba dei Nuraghi 2006 Giovanni Ugas
L’altare preistorico di Monte d’Accoddi, Sassari, Carlo Delfino, 2000 Ercole Contu
Il significato della stele nelle tombe di giganti, Sassari, Dessì, 1978 Ercole Contu
Jhon Robb Universita’ di Cambridge link: http://news.sciencemag.org/archaeology/2015/03/stone-age-italians-defleshed-their-dead