Un askos racconta

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di Giorgio Valdès
Si è disquisito anche troppo sui vasi di Sardara, di Villanovaforru e comunque su quelli analoghi all’askos in figura, ma vorrei far notare la costante presenza delle greche e dei cerchielli concentrici, che in termini geroglifici formano il lemma “NU-RA”. Vorrei anche far notare che il tratteggio fitto non mi pare casuale ed è lo stesso che si utilizza, nel disegno tecnico, per rappresentare la terra. Considerato che la rappresentazione della terra, in geroglifico, era il dio “Geb”, nel vaso leggo Nu-Ra-Geb. Ovviamente si tratta solo di pensieri ad alta voce e mi rendo anche conto che il riferimento alla terra=geb è eccessivamente fantasioso. Se tuttavia la nostra antica civiltà ha acquisito qualcosa dalla cultura egizia, considerato che con la terra dei faraoni abbiamo avuto lunghe e costanti frequentazioni, dal “nu” e dal “ra” (pensate ai cerchielli solari negli occhi dei guerrieri di Monte Prama) non si sfugge.
A questo proposito ritengo interessante riproporre alcune considerazioni sui simboli impressi in questi vasi.
L’introduzione della lavorazione del rame in Sardegna si fa risalire al 2800/2700 a.C. circa.
I Pelasgi chiamavano il rame pacur o bacur, parole che non presentano alcuna affinità con il termine sardo ràmini o con quelli in uso tempo fa, come: ràmine, arramini, ramu, ma che possono invece ricollegarsi alla parola tardo latina cuprum (precedentemente chiamato aes), che rimanda all’isola di Cipro, uno dei più importanti luoghi di estrazione, talché i romani usavano chiamare il metallo proveniente da quell’isola come aes cyprium o aes cuprum.
E’ opinione diffusa, specie tra i cultori del “classicismo ad ogni costo”, che la parola rame origini dal latino parlato aramen, a sua volta derivato dalla citata parola aes.
Ma a parte la radice aes, da dove è saltato fuori il suffisso ramen?
Non solo, ma è credibile che i sardi, i quali conoscevano questo metallo e la sua lavorazione almeno dagli inizi del terzo millennio a.C., non gli avessero assegnato alcun nome, aspettando che fossero i latini ad attribuirglielo, più di 2000 anni più tardi?
Si tratta ovviamente di una tesi poco verosimile e quindi, per prospettare un’ipotesi più realistica sull’origine del vocabolo, occorre fare una piccola digressione, osservando che nello stesso periodo della presunta comparsa in Sardegna di questo metallo, in Egitto terminava il periodo predinastico e iniziava quello dell’Antico Regno (III dinastia).
Con la terra dei faraoni i nostri antichi naviganti avevano stabilito frequenti contatti, che probabilmente risalivano a qualche migliaia d’anni prima ed è quindi assolutamente ragionevole ipotizzare che la parola sarda ramini possa originare da termini geroglifici in uso nell’antico Egitto, considerato tra l’altro che in quella terra l’utilizzo del rame risale probabilmente alla metà del quinto millennio a.C.
Tale segno era costituito da una sorta di buca con acqua che, secondo la celebre egittologa Maria Carmela Betrò, rappresentava il geroglifico dell’utero con valore fonetico hm (connesso a varie parole tra cui hmt = donna), da leggersi, indifferentemente come hem o ham.
Secondo la stessa Betrò, “ ….come hmt il segno finì per designare, insieme all’utero, anche il rame”.
Non è chiara quale sia l’attinenza esistente tra i due significati del geroglifico, ma è indubbio che il rame rappresentasse qualcosa di prezioso come lo erano il ventre materno e l’acqua, entrambi intesi come fonti di vita e luoghi di anelato ritorno.
Va anche osservato che attualmente il cosiddetto “Specchio di Venere”, simbolo della donna, per gli alchimisti è anche emblema del rame.
Detto questo, per scoprire l’origine del termine sardo ramini (e simili), senza scomodare i latini, ci vengono incontro le simbologie riportate sui vasi di S.Anastasia (località in cui, tra l’altro, sono state rinvenute grandi quantità di oggetti di rame), nei quali si osservano dei cerchielli (uguali ai segni geroglifici indicativi del sole “Ra”) sovrastanti la coppa sporgente (uguale al citato segno geroglifico “hm”), che sembrano penetrarvi all’interno sino ad intercettare le sottostanti greche, che sempre in termini geroglifici raffiguravano l’acqua ed avevano il valore fonetico “n”.
Rileggendo i simboli nel loro complesso si otterrebbe allora la parola ra-hm-n o rahmen, evidentemente analogo ai vocaboli sardi ramini o ramine che dir si voglia.
Ma anche il termine ramu, indicato nelle premesse e utilizzato nel nord Sardegna (dal vocabolario del canonico Giovanni Spano), è leggibile sulla superficie del vaso di S.Anastasia, se si considera che in geroglifico la raffigurazione di più greche si legge “mw” ed ha il significato di grande quantità d’acqua.
In questo caso, la sequenza dei segni geroglifici sarebbe: “ra-hm-mw” = “ramu”.
Tutte parole che in un periodo molto successivo sono state sicuramente acquisite dalla lingua latina e trasformate in “aramen”.
Vorrei infine osservare come i simboli grafici riportati sul vaso di S.Anastasia e la loro sequenza, dall’alto verso il basso, presentino una certa similitudine con quelli dipinti su di un vaso (e anche sopra un frammento di vaso) conservato al museo del Louvre, e risalente alla dinastia egizia “zero” (3150-3100 a.C.).
(nella foto una brocca askoide dal Nuraghe Genna Maria di Villanovaforru, Museo archeologico di Cagliari).
(nella foto una brocca askoide dal Nuraghe Genna Maria di Villanovaforru, Museo archeologico di Cagliari).