di Giorgio Valdès
Le figure riportano il particolare di un’artigiana intenta a eseguire un intreccio e alcuni cestini che a prima vista paiono essere quelli tipici della tradizione sarda. In realtà la foto in bianco e nero riproduce tre cesti conservati presso il museo egizio di Torino e rinvenuti a Deir el Medina nella sepoltura dell’architetto Kha. L’egittologa Betrò, dal cui testo "Geroglifici" è tratta l’immagine, data questi oggetti alla XIX dinastia faraonica (1295-1188); periodo in cui è attestata l’assidua presenza in terra d’Egitto degli Shardana e che vide alternarsi otto faraoni, tra i quali anche Ramesse II “il Grande”. L’analogia tra le produzioni egizie e quelle sarde è piuttosto evidente, a maggiore conferma degli intensi, reciproci contatti intrattenuti dalle due grandi civiltà mediterranee. Tuttavia è probabile che da parte della Betrò ci sia stato un errore d’indicazione della dinastia, perché Kha fu capo architetto dei lavori della necropoli al servizio di Amenhotep III, faraone della XVIII dinastia vissuto tra il 1390 e il 1352 a.C. Se così fosse, si disporrebbe di un altro indizio per retrodatare i rapporti tra sardi ed egizi, che secondo le prevalenti teorie risalgono al periodo delle così dette “lettere di Amarnha” e in particolare al regno del faraone eretico Akhenaton (Amenhotep IV, 1352_1338 a.C.), successore di Amenhotep III, mentre personalmente ritengo che le reciproche frequentazioni risalgono almeno alla XIII-XIV dinastia Hyksos (1785-1683 a.C.). Per inciso, l’”eresia” di Akhenaton si riferisce come noto al fatto che egli abbracciò il culto dell’unico dio solare Aton-Ra, tentando di cancellare le altre divinità del pantheon egizio; ed è curioso osservare come per alcuni e in particolare per Leonardo Melis, la sua scelta fu condizionata proprio dal contatto con il monoteismo shardana.