Una terra accogliente

postato in: Senza categoria | 0

di Giorgio Valdès In occasione di un convegno tenutosi a Cagliari il 30 Novembre 2009, il professor Francesco Cucca aveva anticipato i risultati di importanti studi genetici da lui effettuati insieme ad un’equipe di scienziati e ricercatori internazionali. Studi successivamente pubblicati, nell’agosto del 2013, sulle pagine della prestigiosa rivista “Science”. Nel corso dell’incontro, il professor Cucca aveva affermato che le popolazioni sarde erano, sotto il profilo genetico e per vari motivi, quelle più studiate nel mondo e talmente antiche che ”l’apporto genetico” di chi avrebbe successivamente occupato l’isola “Fenici, Punici, Romani, Bizantini etc,” sarebbe stato “sostanzialmente marginale”. Aveva anche osservato come il nostro progenitore comune risalisse a circa 20 mila anni fa (resti umani rinvenuti nella grotta Corbeddu in territorio di Oliena), al culmine della glaciazione di Wurm, e che i sardi fossero d’origine europea, presentando affinità con gli altri europei, ma anche rilevanti unicità. Gli studi della genetica smentivano inoltre qualsiasi forma di campanilismo tra sardi, in quanto tutti discendenti dai nuragici. Intorno a 14.000 anni fa la popolazione sarda si sarebbe quindi espansa dal punto di vista demografico, in maniera maggiore, e non di poco, rispetto alle restanti popolazioni europee. Si può trarre spunto dalle considerazioni di Cucca per ipotizzare, con un po’ di fantasia, come sia avvenuta l’originaria espansione demografica in Sardegna e come sia proseguita sino al Neolitico Antico. Al culmine della glaciazione di Wurm, circa ventimila anni orsono, i primi “turisti” raggiungevano le coste della Sardegna, allora unita all’attuale Corsica. Non venivano certo perché attratti dalla fama della Costa Smeralda, ancora di là da venire, e neanche per il colore del mare, che pure era limpido e trasparente come ai giorni nostri, ma per fuggire dal procedere dei ghiacci che negli ultimi millenni si erano spinti sempre più a sud, sino a lambire le coste dell’Iberia e della Liguria. Le “settimane bianche” non erano comprese nel lessico di quei viaggiatori, ma il freddo era davvero “freddo” come di più non si può e portava con sé fame, stenti e condizioni di vita insopportabili, anche per chi era avvezzo a confrontarsi giorno dopo giorno con una natura insidiosa e inospitale. La fuga dalle intemperie li aveva condotti sino alle rive occidentali dell’odierna isola d’Elba, a sua volta unita alla terraferma, da cui potevano scorgere, a occhio nudo, una terra lontana ma non abbastanza da non potersi raggiungere con una zattera spinta da un vento favorevole. Una terra che probabilmente era più accogliente delle contrade brulle e gelide da cui provenivano e la presenza della fitta vegetazione costiera, che aguzzando la vista si scorgeva all’orizzonte, alimentava le loro speranze. I nostri proto-turisti non si portavano dietro sedie a sdraio e ombrelloni, ma alcuni strumenti di pietra dura con i quali, nei paesi d’origine del nord Europa, sbozzavano i grandi massi che usavano infiggere nel terreno in onore dei propri dei e degli eroi scomparsi. Anche la nuova terra che li accoglieva era ricca di rocce, a volte bianche come la neve, a volte nere come la notte, ma tutt’intorno c’erano anche boschi rigogliosi sulle cui cime svolazzavano stormi di uccelli, pianure fiorenti, torrenti impetuosi, laghi ricolmi d’acqua e tanta, tanta cacciagione. Oltretutto non esistevano animali pericolosi da cui doversi difendere ma solo selvaggina commestibile, mentre gli alberi offrivano frutti spontanei in abbondanza, spesso diversi da quelli dei loro paesi d’origine, ma talmente più ricchi di sapore e di profumo da rimanerne inebriati. Catturare i pesci che guizzano a poca distanza dalle spiagge era poi un gioco da ragazzi, come anche raccogliere i mitili di cui erano colme le scogliere e i bassi fondali delle tante lagune circostanti. C’erano persino i tonni, che a branchi numerosi si spingevano sin quasi a riva, per cibarsi delle ghiande che cascavano in acqua dai rami delle querce svettanti dalle pareti rocciose a picco sul mare. Questi proto-colonizzatori, alla ricerca di temperature ancora più miti, si dirigeranno quindi sempre più a sud, sino ad attestarsi in quella che sarebbe divenuta l’attuale Sardegna che poi, intorno al decimo millennio a.C., si sarebbe separata dalla Corsica quando, con il disgelo, le acque del mare avrebbero sommerso la depressione che univa le due isole. In quello stesso periodo, i pronipoti dei primi colonizzatori scopriranno che in un sistema montuoso prospiciente la costa centro occidentale dell’isola, il monte Arci, brillava un bel minerale, lucido e nero come le ali del corvo, che si poteva scheggiare facilmente per realizzare lame dure e taglienti, punte di freccia e moltissimi altri oggetti. La lavorazione e commercializzazione di questa pietra vulcanica, che molto più tardi avrebbe assunto il nome di ossidiana o, in lingua sarda “perda corbina”, rappresenterà una pietra miliare dell’antichissima storia della Sardegna. Questo avveniva tra il 6000 e il 4000 a.C. Nelle immagini: l’Italia al culmine della glaciazione di Wurm; il “mega pillow” vulcanico “Su Carongiu ‘e Fanari” (pendici del Monte Arci a Masullas); l’ossidiana