di Giorgio Valdès In un saggio intitolato “Atlantide”, dal quale sono stati ripresi alcuni brani nel nostro precedente post “Gli Shardana a Roma”, l’etruscologo Marco Giulio Corsini esprimeva estesamente il suo parere in merito ai rapporti intercorrenti tra gli stessi Shardana e la “città eterna” sin dai tempi della sua fondazione, sostenendo in particolare come essi fossero dediti al culto del dio unico Yahwè. Il glottologo Salvatore Dedola, nel suo libro “Monoteismo precristiano in Sardegna” affronta a sua volta il tema del monoteismo delle antiche genti sarde osservando che, a suo giudizio “i nove nomi di Dio non sono altro che la descrizione dei vari aspetti (tutto sommato pochi) coi quali Dio si manifestava al suo popolo”. Le considerazioni di Dedola sono particolarmente interessanti e dettagliate e ci si limita pertanto a riportare esclusivamente alcuni brani del paragrafo dedicato a Iàccu, il terzo nome del Dio sardiano: “Circa l’etimo di Iàccu, Iaccos…, possiamo inferire che la sua base etimologica è ebraica, non per altro, ma solo perché gli Ebrei lo considerano il vero nome (quello segreto) del proprio Dio Onnipotente, da pronunciare così com’è scritto, ossia Yahuh. In Sardegna questo nome sacro è ripetuto numerose volte, nei nomi personali, nei cognomi, e anche in parecchi toponimi”…”L’interpretazione etimologica del tetragramma (interpretazione ebraica, s’intende) si basa su ‘Esodo 3, 13-14-15’, allorchè Dio manda Mosè dal Faraone a chiedere e ottenere l’uscita dall’Egitto. ‘Allora Mosè disse al Signore: Ecco quando io mi presenterò ai figli di Israele, e annunzierò loro: ‘Il Signore dei padri vostri mi manda a voi ‘, se essi mi chiederanno qual è il nome di Lui che cosa dovrò rispondere? ’. E il Signore rispose: ‘Io sono quello che sono’ e aggiunse: ‘Io sono, mi manda a voi’. Inoltre così disse il Signore a Mosè: ’Annunzia ai figli d’Israele che è il Signore dei vostro padri, Dio di Abramo, Isacco, Giacobbe che m’invia a voi. Questo è il mio nome in perpetuo, questo è il mio modo di designarmi attraverso le generazioni’”. L’autore osserva inoltre che gli ebrei hanno origine sumerica e che il termine yahw può considerarsi composto da “ia” (esclamazione, esortazione) unita all’accadico “ahw” dal significato di forza o potenza. Yahw può quindi assumere un significato esortativo, esclamativo di “Oh Forza”, “Oh Potenza”. “Il fatto che Dio abbia ordinato a Mosè di chiamarlo mediante un’esortazione riferita alla Sua potenza infinita” prosegue Dedola “non deve meravigliare, poiché nella ‘Bibbia’ (o anche nei ‘Vangeli’) Dio non ha mai cercato le astrusità e i sotterfugi, tantomeno le simbologie: anzi ha sempre voluto un rapporto chiaro e diretto con l’Uomo. Sono stati gli Ebrei ad avere forzato nella direzione di un distacco totale tra l’Essere divino e la Parola. E questa tradizione giudaico-cristiana è, purtroppo, ancora oggi, inossidabile”…” Il fatto che i Sardi non abbiano mai patito il tabù degli Ebrei, la dice lunga sul fatto che il nome universale di YHWH dei Sardi è stato trattato con maggiore libertà, visto che in Sardegna quel nome sacro esiste un po’ dovunque. Certo non esiste al modo come vorremmo, anche perché in Sardegna manca la tradizione scritta d’epoca precristiana (salva qualche frase fenicia). E tocca a noi oggi ‘sgusciare’ e ‘raddrizzare’ filologicamente certi nomi, certi epiteti, certi toponimi, allo scopo di capire la situazione di quei tempi e allo stesso tempo capire gli artifici che i preti bizantini inventarono, nella foga di ottundere e sopprimere ogni forma di dottrina che i Sardi avevano sulla religione di padri. Per recuperare la storia antica della Sardegna, basta partire dal fatto che i preti bizantini fecero ‘tabula rasa’ della pregressa religione, ma lo fecero con delle costanti che, una volta svelate, appalesano nitidamente le modalità con cui procedevano nel soffocare le parole-emblemi-simboli della religiosità del popolo. Il loro procedere era talmente capzioso che nessuno mai intuì l’inganno. Si trattava, per lo più, di approfittare del fatto che essi parlavano greco ed avevano quindi una lingua assai diversa da quella del popolo sardo, che parlava ancora lo ‘ zoccolo duro ’ semitico. La differenza di toni, di accenti, di fonetiche, talora di concettualizzazioni da parte di quei preti che si sforzavano comunque di parlare sardo, suscitava nel popolo un irrefrenabile moto di simpatia e di disponibilità al dialogo. Quindi il popolo analfabeta accettava facilmente le ‘dotte’ prediche con le quali i preti spiegavano che YHWH (letto i-ahu) era lo stesso ‘San Jacopo o Giacomo’, che essi si premurarono da quell’istante di chiamare (guai a sbagliarsi!) con la fonetica sarda: Yahu, Yaku, Yaccu, Jagu. Fu tale la convinzione del popolo, che oggi ci ritroviamo una serie di località chiamate ‘Santu Jaccu, Santu Jacci, e ritroviamo pure il cognome Giàgu, tutti intesi come ‘Giacomo’! Ma è ovvio che ‘Iaccu, Giàgu’ non c’entra nulla con ‘Giacomo’ apostolo. ‘Iaccu, Giàgu’ è nome di origine mediterranea. Non è il vezzeggiativo di ‘Jacomo’…” Nella foto di Nicola Castangia: il presunto nuraghe (o pozzo sacro) Sisini, il cui nome (identico a quello della frazione di Senorbì che lo ospita), deriverebbe secondo Dedola da “Seh” Sinay (“Quello del Sinai”), uno degli antichi nomi divini di Yahweh