Rubrica Legale Nurnet dell’avvocato Antonio Leoni. 2^
Importante questione che interessa un altissimo numero di visitatori di siti archeologici è quella relativa all’utilizzo, alla pubblicazione e all’eventuale commercializzazione delle fotografie. Non può nascondersi che la normativa in materia rappresenta un raro esempio di sciatteria legislativa conseguente non solo e non tanto a giustapposizioni di norme nuove su norme vecchie ma soprattutto al fatto che il testo di queste ultime, pur essendo di vecchissima formulazione, è stato riprodotto fedelemente nella nuova normativa senza aggiornarne la formulazione. Così ad esempio nell’art. 108 del Codice dei Beni Culturali e dell’Ambiente sembra delinearsi una distinzione tra “canoni di concessione” e “corrispettivi di riproduzione” quasi che i due concetti fossero tra loro distinti (come se i primi fossero correlati all’uso individuale del bene culturale in genere e i secondi a quello consistente nella riproduzione in specie) salvo che nel corpo dello stesso articolo si parla poi di “importi minimi dei canoni e dei corrispettivi per l’uso e la riproduzione” senza che sia dato capire se il concetto di uso sia correlato a quello di canone piuttosto che a quello di corrispettivo come il teneore testuale della norma sembrerebbe, invece, suggerire. Sempre per restare nel tema della scarsa qualità della tecnica legislativa adottata nella materia di cui ci stiamo occupando, non può neppure sottacersi come la legge sia arrivata al punto di occuparsi di dettagli tecnici che in altri settori del diritto sarebbero stati demandati a fonti normative sottordinate. Da tale prospettiva è dato scorgere come nell’art. 107 del Codice in questione ci si occupa della modalità di esecuzione dei calchi, così come nell’art. 108 si entra nel dettaglio dell’uso delle fonti luminose o dei treppiedi per lo scatto di fotografie. Peraltro, mentre la norma sui calchi è ripresa pedissequamente dalle vecchie leggi e trova la propria logica nelle ideologie imperanti nell’epoca in cui lo Stato si poneva come soggetto infallibile abilitato a regolare i dettagli anche minuti della vita del cittadino, non identica ragione si auspica trovi la norma sui treppiedi promulgata, invece, sotto il Governo Renzi. Il risultato del modo di operare appena evidenziato non può che determinare una disciplina di non semplice interpretazione e che, come tale, lascia spazio a immancabili dubbi da parte di chi è chiamato a farla rispettare ove non anche ad abusi. Fatta questa doverosa premessa, dalla disamina degli artt. 106 e ss. del Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio è dato desumere in modo certo l’esistenza del principio generale secondo il quale l’uso individuale dei beni culturali pubblici è permesso dietro rilascio di concessione; l’uso individuale potrebbe ad esempio individuarsi nell’utilizzo di un nuraghe per celebrare un matrimonio, girare un film, tenere un concerto, fare fotografie, come qui interessa. Altro principio generale desumibile dalle dette norme è quello in base al quale, per ottenere la concessione in questione è necessario pagare un canone (o un corrispettivo) peraltro in anticipo. Il principio della concessione del bene pubblico dietro pagamento di canone o corrispettivo, peraltro, non vale solamente in relazione ai beni culturali ma più in generale per qualsiasi bene pubblico suscettibile di uso individuale (es. tratto di arenile per l’installazione di stabilimenti balneari, tratto di marciapiedi per l’installazione di chioschetti ecc.) Detto questo, relativamente ai beni culturali, il principio dell’obbligo di pagamento trova una importante deroga nel comma 3 dell’art. 108 del Codice, dettato specificamente per le riproduzioni in genere (e non limitatamente alle riproduzioni fotografiche). La norma, in particolare, stabilisce espressamente che “nessun canone è dovuto per le riproduzioni richieste da privati per uso personale o per motivi di studio, ovvero da soggetti pubblici o privati per finalità di valorizzazione, purché attuate senza scopo di lucro. I richiedenti sono comunque tenuti al rimborso delle spese sostenute dall’amministrazione concedente.”. A proposito di detta norma è da segnalare che il suo testo originario non prevedeva né l’esenzione dal canone in favore dei privati né l’espressa indicazione che le finalità di valorizzazione utili allo scopo di ottenere l’esenzione dal canone, fossero comunque senza fini di lucro; dette novità sono state introdotte con il decreto c.d. “Artbonus” del 31 maggio 2014. In sintesi, i privati possono ottenere senz’altro la concessione ad operare riproduzioni per uso personale o per motivi di studio, o anche per la valorizzazione dei siti (al pari del soggetto pubblico) purchè questa sia senza fini di lucro; elemento imprescindibile ai fini della legittimità della riproduzione è che sia stata rilasciata la prescritta concessione da richiedere alla competente Soprintendenza. La cosa apparentemente si complica con il comma 3 bis (introdotto dal decreto Artbonus) dello stesso art. 108 il quale prevede che “sono in ogni caso libere le seguenti attività, svolte senza scopo di lucro, per finalità di studio, ricerca, libera manifestazione del pensiero o espressione creativa, promozione della conoscenza del patrimonio culturale: 1) la riproduzione di beni culturali diversi dai beni bibliografici e archivistici attuata con modalità che non comportino alcun contatto fisico con il bene, né l’esposizione dello stesso a sorgenti luminose, né, all’interno degli istituti della cultura, l’uso di stativi o treppiedi; 2) la divulgazione con qualsiasi mezzo delle immagini di beni culturali, legittimamente acquisite, in modo da non poter essere ulteriormente riprodotte a scopo di lucro, neanche indiretto”. Ci si domanda a questo punto quale sia il significato e la portata di quest’ultima norma, peraltro recentissima in quanto introdotta col sopra citato decreto Artbonus. Deve senza dubbio escludersi che il predetto comma 3 bis dell’art. 108 si limiti a ripetere o anche solo a specificare quanto già previsto al comma 3 dello stesso articolo giacchè ogni diversa interpretazione sarebbe contraria alla logica oltre che al criterio ermeneutico teleologico, cioè a quello teso a intrepretare la norma alla luce delle finalità che si propone. In altre parole, se si pensasse che il comma 3 bis fosse una semplice specificazione di quanto già previsto al comma 3, esso sarebbe una norma del tutto inutile e, altrettanto inutile sarebbe la sua introduzione nell’ordinamento visto che il suo contenuto sarebbe già compreso in tutta la sua portata in quello di una norma già esistente. Se pertanto il legislatore, dopo il comma 3 ha voluto introdurre un comma 3 bis è evidente che ha voluto apportare una novità. Se dunque il significato del comma 3 è quello di prevedere che per le riproduzioni senza finalità commerciali vi è esenzione dal pagamento del canone ma non dal rilascio della concessione, il significato del comma 3 bis non può che essere quello di stabilire che, sempre all’interno della categoria delle riproduzioni per finalità non commerciali, per alcune di esse, non solo vi è esenzione dal canone ma vi è esenzione anche dalla concessione. Cià peraltro è confermato anche dal dato testuale posto che si dice espressamente che dette riproduzioni sono “libere”. Al contrario, è evidente che ricadono sotto il disposto del comma 3 (e perciò sono soggette a concessione) le riproduzioni di beni archivistici, quelle che comportino contatto fisico con la cosa, quelle eseguite con uso di sorgenti luminose e, per i beni conservati nei musei, quelle che si eseguano con apparecchi che comportino l’uso di stativi o treppiedi. Ove tali attività, poi, abbiano finalità commeciali, esse saranno soggette, oltre che alla concessione, anche al pagamento del canone. Allo stesso modo, sulla base dello stesso principio il comma 3 bis stabilisce che è libera (per quanto argomentato, da canone e concessione) la divulgazione delle riproduzioni legittimamente eseguite (perchè libere o perchè eseguite dietro concessione ma senza canone) quando questa non abbia scopo neppure indiretto di lucro. Per converso, la divulgazione con finalità commerciali sarà soggetta tanto a concessione quanto anche a canone o corrispettivo. Antonio Leoni, avvocato