1847: RAPPRESENTATIVI SOLO GLI STAMENTI? ANCHE NO.

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di Francesco Masia

Verso la fine del ‘700 le masse popolari sarde, rurali e urbane, non abbracciarono, a differenza di come (e quanto) avvenne altrove in Europa, gli ideali della rivoluzione francese, che pure avrebbero dovuto rappresentare per loro una prospettiva di liberazione dal feudalesimo e dall’assolutismo monarchico.

In questo ebbe quantomeno un ruolo il fatto che fossero sospinte (le masse popolari sarde) dalla fedeltà alla chiesa, i cui prelati invitavano in genere a resistere ai portatori di ideali laici o anticlericali.

Fatto sta che, quando i francesi, all’inizio del 1793, tentarono la conquista dell’isola, i sardi per organizzare una resistenza resuscitarono gli Stamenti (i bracci del parlamento dell’epoca spagnola, non convocati da un secolo e allora, perciò, autoconvocati). Poi, forti del successo di questa resistenza (gli assalitori pare non si condussero egregiamente), gli Stamenti giunsero ad avanzare al re la piattaforma delle 5 domande, al tempo modesta richiesta d’un qualche riconoscimento circa la partecipazione dei sardi all’amministrazione della Sardegna, da cui erano altrimenti tenuti fuori (Aprile-Luglio 1793).

In risposta ottennero dapprima, nel Settembre 1793, l’ordine di sospendere le sedute degli Stamenti; e poi, ci fossero stati ancora dubbi, il no di Vittorio Amedeo III alle 5 domande (il 1º Aprile del 1794). Il mancato accoglimento di quelle deboli rivendicazioni, insieme ad azioni sempre più repressive nei confronti di quel movimento popolare (con arresti di ritenuti capi patrioti), giunse a suscitare la cacciata dei piemontesi, dal Viceré, ai militari ai funzionari (risparmiando i soli prelati; 28 Aprile – 7 Maggio 1794).

Ora, la maggior parte dei sardi a conoscenza di questo episodio tenderà a pensare, fondando su quel poco che in genere capita di leggerne o sentirne, che in quel momento la Sardegna fosse felice di quella improvvisa libertà e pronta a difendere il proprio futuro di indipendenza. Questo perché quanto sembra “passare” nella comunicazione, almeno quanto alle opere divulgative, è una sarda rivoluzione eroica guidata dagli Stamenti che perseguirono l’indipendenza; quegli stessi Stamenti che 50 anni dopo, nel 1847, risulterà perciò delittuoso aver tagliato fuori dal pronunciamento sulla Perfetta Fusione con gli Stati di Terraferma, in quanto quella Fusione (richiesta da gruppi non rappresentativi, si sostiene) porterà l’isola a perdere le proprie istituzioni storiche (e quindi gli stessi Stamenti).

Ma è giusto sintetizzare così queste pagine di storia?

Naturalmente bisogna guardare ai fatti di quegli anni più da vicino. Tra i pochi che, oggi, hanno chiaro quanto impiegò a tornare in Sardegna un nuovo Viceré (il 6 Settembre non erano trascorsi 5 mesi dal 28 Aprile), pochi sapranno spiegare e spiegarsi come a questo ritorno si sia giunti. Nessun attacco sabaudo e nessuna resistenza sarda: il Viceré arrivò largamente bene accolto, preceduto sull’isola dai militari e dai funzionari piemontesi. Semplicemente, l’autogoverno sardo (determinato e sostenuto dagli Stamenti, dove nobili, feudatari, prelati, non avevano grande interesse a rivoluzionare nulla) si era subito orientato alla reazione contro gli impulsi libertari, antifeudali e antimonarchici (quindi anche antipiemontesi) dei tumulti primaverili, impegnandosi col re a un ritorno all’ordine, in breve efficacemente realizzato.

Di fatto in quegli anni presero il sopravvento dei sardi che possiamo misurare più realisti del Viceré. Attraverso il lasciarci le penne di molti (da una parte realisti che davvero esagerarono, in primis Girolamo Pitzolo e Gavino Paliaccio, uccisi dalla folla nel Luglio 1795; dall’altra quanti credettero al riscatto dei sardi nella rivoluzione angioyana, soppressa nel Giugno 1796 dall’esercito degli Stamenti), il parlamento sardo vide la contrapposizione tra novatori e realisti, che si chiuse in favore dei secondi quando dai primi si distinse la parte moderata.

Ma è il cammino di quella piattaforma, delle 5 domande, a segnare implacabilmente la parabola degli Stamenti, da evolutiva a involutiva: il re, dopo averle respinte nel 1794, giunse ad accogliere le 5 domande nel Giugno 1796 (insieme alla concessione dell’amnistia ai coinvolti nei tumulti del 28 Aprile 1794), quando gli Stamenti stavano mettendo una taglia sulla testa di Angioy e gli muovevano contro per sbaragliarlo a Oristano; quella piattaforma, che poteva sembrare il misero frutto della “sarda rivoluzione”, a quel punto era in realtà un passo ulteriore verso la restaurazione; quando poi il nuovo re, Carlo Emanuele IV, scacciato da Napoleone arriverà a Cagliari (1799), gli Stamenti giungeranno a chiedergli di cancellare pure interamente quella piattaforma (chi siamo noi per dire al sovrano chi deve nominare a qualsiasi incarico?); mentre sulla penisola si fa la Repubblica Italiana e iniziano a diffondersi gli ideali di libertà e uguaglianza, in Sardegna la fraternità degli Stamenti, lusingati dal poter servire i reali di persona, va tutta verso i Savoia.

Così, con abbastanza ignominia, si congeda in sostanza dalla storia il nostro parlamento.

A che serve ricordarlo?

Intanto a celebrare con maggiore consapevolezza Sa Die de sa Sardigna, mettendoci più in discussione di quanto mediamente (autocelebrandoci) facciamo.

Non secondariamente, sarà utile avere presente questi fatti quando capiterà ancora di sentir dire che i sardi mobilitatisi per chiedere nel 1847 la Perfetta Fusione con gli Stati di Terraferma del Regno (Stati nei quali venivano allora varate riforme liberali, alla vigilia dell’emanazione dello Statuto Albertino e quindi dell’elezione del Parlamento dello Stato unitario) non erano rappresentativi, “perché si sarebbero dovuti convocare gli Stamenti”.

A dirla tutta (e qui mi sposto dal rendere conto dei fatti all’avanzare un’opinione), mi spingerei a questa consapevole illazione (ognuno potrà trovare argomenti per contraddirla, resterà naturalmente indimostrabile): se Giovanni Maria Angioy e (per fare un altro nome) Francesco Ignazio Mannu (l’autore dell’inno Su patriotu sardu a sos feudatarios –Procurade ‘e moderare) avessero operato intorno al 1847 e non intorno al triennio 1794-1796 (essendo comunque andata allora come andò), penso avrebbero parteggiato anche loro per agganciare la Sardegna a un’Italia unita, così che in quel Novembre si sarebbero trovati con gli altri nelle piazze (potrà dirsi l’avrebbero fatto “ripiegando”, in qualche modo; ma, se anche li avesse accompagnati una certa rassegnazione, penso vi avrebbero messo pure il giusto slancio, quello necessario agli stati nascenti e che solo a freddo, perdendo di vista prospettiva e contesto, può squalificarsi come “follia collettiva”).

È per questo che non mi sento in contraddizione nell’apprezzare entrambe quelle pagine, trovando che noi sardi sembriamo non aver fatto bene i conti né con l’una (quando ci limitiamo a celebrare la cacciata dei piemontesi) e né con l’altra (quando ci fermiamo a recriminare sul sacrificio degli Stamenti). Potrebbe dirsi che, portato avanti un piede per iniziare un cammino, abbiamo difficoltà a sopravanzarlo con l’altro; piuttosto tendiamo a ritirare il primo (come fa chi, per esempio, critica ancora il Risorgimento o l’Euro e l’Unione Europea).

A seguire, l’indice e alcuni passi da ”L’attività degli Stamenti nella ‘Sarda Rivoluzione’ (1793-1799)”, a cura di Luciano Carta, 2000, Editori Consorziati sardi, Cagliari. “Reviviscenza e involuzione dell’istituto parlamentare nella Sardegna di fine Settecento” http://www3.consregsardegna.it/acta_curiarum/pdf/24-1.pdf

1 Dalla guerra patriottica contro l’invasione francese alla rivendicazione dell’identità nazionale (pag. 15) 2

Le «cinque domande»: una piattaforma politica autonomista (pag. 66)

3 L’insurrezione cagliaritana del 28 aprile e la vittoria del partito patriottico (pag. 120)

4 Il partito patriottico tra riformismo e reazione (pag. 174)

5 I moti antifeudali e l’epilogo della «Sarda Rivoluzione» (pag. 222-256… qui la fine ignominiosa degli Stamenti e dell’autonomia sarda, per mano dei Sardi –via via lealisti monarchici, fino a fanatici monarchici). “A partire dall’agosto 1797 le sedute stamentarie vennero diradate su proposta dell’ordine ecclesiastico, «essendo ormai terminato l’affare delle milizie, ed altri di premura, in cui precedentemente si occupavano gli Stamenti». Raggiunti i principali obiettivi, alla componente moderata dell’ex partito patriottico, ormai inserita con i suoi uomini più rappresentativi nelle leve del potere, restava solamente da vigilare sui possibili ritorni di fiamma dell’ideologia rivoluzionaria, procedendo allo sterminio di «alcuni soggetti partigiani del cavaliere Angioy e del suo iniquo progetto», di quanti cioè erano considerati i capi del movimento antifeudale, ritenuti capaci di «sedurre i villici a nuovi disordini».” “A partire dal 1798 nelle riunioni degli Stamenti, sempre più diradate e sempre più disertate dai deputati, anche da quelli residenti a Cagliari, si respira un clima di ormai consolidata restaurazione e di supporto incondizionato alla traballante monarchia sabauda.”

“Con l’arrivo della corte a Cagliari questa stagione politica e culturale non solo diviene un ricordo lontano, ma viene cancellata dagli stessi Stamenti. I tre ordini del Regno, che per sei anni erano stati gli arbitri della vita politica sarda, a partire dall’insediamento del governo regio a Cagliari divengono una larva della rappresentanza nazionale. Come testimoniano gli atti pervenutici relativi al periodo 1799-1824, i tre Stamenti assolvono esclusivamente alla funzione di esattori di risorse finanziarie, ordinarie e straordinarie, necessarie al mantenimento di una corte sicuramente troppo dispendiosa per le grame risorse dell’isola.” “Nel 1799 sembrano lontane anni luce quelle rappresentanze in cui gli Stamenti rivendicavano il rapporto pattizio che doveva intercorrere, a norma delle «leggi fondamentali» del Regno, tra il sovrano e la nazione sarda. I superstiti atti del primo quarto del secolo XIX testimoniano solamente il «sudditizio attaccamento» dei tre ordini del Regno verso la casa regnante, esplicantesi nell’approvazione per acclamazione, come si legge ad esempio nel verbale del 25 agosto 1806, della proposta di «presentare gli Stamenti una oblazione di scudi 25.000 annui a Sua Maestà la regina» al fine di offrire alla consorte di Vittorio Emanuele I l’assurdo balzello dello «spillatico».”

“Questa metamorfosi degli Stamenti era la conseguenza di quell’atto di «sudditizio attaccamento» di cui ancora oggi la ricerca storica stenta a darsi una ragione: la rappresentanza del 28 agosto 1799 con la quale gli Stamenti rinunciavano a tutte le prerogative contenute nel regio diploma 8 giugno 1796. Come ha scritto Pietro Martini, gli Stamenti con quella rappresentanza erano stati «più che motori, supplicatori della rovina della propria opera»; essa «segnò il principio di quella loro agonia politica che si chiuse l’8 febbraio 1848»”.