Cagliari, una lunga storia

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di Giorgio Valdès
La presenza di reperti nuragici in area cagliaritana è notoriamente sporadica, per quanto sia ragionevole ritenere, come sostenuto tra gli altri anche dal professor Massimo Pittau, che Cagliari, posizionata al centro del suo golfo, si sia sempre storicamente configurata come approdo primario, e a maggior ragione nel corso dell’Età del Bronzo, quando la navigazione lungo le rotte del Mediterraneo, da e per la Sardegna, aveva assunto una notevole rilevanza. L’attività edificatoria, che nel corso dei secoli ha ovviamente cambiato senza soluzione di continuità il volto della città, ha purtroppo comportato lo smantellamento o il riutilizzo dei monumenti dell’età nuragica (e del relativo materiale litico), sicuramente presenti nel contesto urbano e nelle sue prossimità. L’esistenza di innumerevoli nuraghi, lungo la fascia litoranea dell’intero Golfo degli Angeli, rende peraltro irrazionale l’ipotesi che proprio l’area cagliaritana venisse trascurata dagli antichi naviganti e costruttori del periodo. A parte dover considerare che l’enorme e spessa massa di fango che caratterizza il basso fondale dello stagno di Santa Gilla, potrebbe celare diverse, fondamentali ma irraggiungibili testimonianze del nostro lontanissimo passato.
Tuttavia, sono note alcune preesistenze preistoriche risalenti al nuragico, come i reperti rinvenuti nella Grotta dei Colombi (Bronzo Finale / Prima età del Ferro, fine XII, inizi IX sec.a.C.) e i frammenti di ceramica nuragica, con orli a spigolo o con decorazioni geometriche, provenienti da raccolte effettuate sul Capo S.Elia, nella Grotta del Bagno Penale e in tanti altri anfratti (“Sant’Elia, Connotazione e Storia”- Comune di Cagliari 1990).
Nel 2012 fu inoltre rinvenuto nel Parco di Monte Claro, dall’archeologo Nicola Dessì, quello che pare possa essere un pozzo sacro nuragico.
A ciò si aggiungono, tra gli altri, i ritrovamenti di una forma di fusione litica in via Po, oltre a teste di mazza e macinelli litici anche sul colle di Tuvixeddu.
Un colle, quest’ultimo, situato appena alle spalle di quella che, con grande probabilità, costituiva l’area di approdo costiera preferenziale per i pre-nuragici e nuragici, quindi estesa sino al promontorio di Sant’Elia.
Come si legge in un vecchio articolo, a firma Vincenzo Santoni, pubblicato qualche tempo fa sul sito dell’Autorità Portuale di Cagliari, “i ritrovamenti preistorici di viale Trieste, di via Po / via Brenta e di Tuvixeddu, bene si coniugano con la ipotesi di dislocazione del porto lungo il tratto costiero compreso fra via S.Avendrace – Fangario”.
La necropoli fenicio-punica di Tuvixeddu, che oggi proponiamo nelle belle immagini di Francesca Cossu e nelle considerazioni che seguono, tratte dal blog dell’amico Pierluigi Montalbano, comprova l’interesse che questa porzione dell’area cagliaritana ha sempre suscitato nelle genti che nel corso dei millenni, e almeno a decorrere dal Neolitico Antico (VI-V millennio a.C.), giunsero nell’isola e vi si stanziarono per dare origine ad una straordinaria e lunghissima civiltà.
“ Tuvixeddu è la più grande necropoli punica visibile al mondo: il colle copre circa 70 ettari, il parco urbano archeologico è di 20 ettari. Viale Merello e Via Is Maglias erano già utilizzate come strade nell’antichità, e costituivano una valle naturale tra la cima di Tuvumannu e la cima di Tuvixeddu. Probabilmente si trattava di una via funeraria perché vi si aprivano delle tombe a camera puniche, qualcuna ancora visibile vicino alla facoltà di ingegneria. La necropoli si estendeva dalla salita di Buoncammino, proseguiva in Via Is Maglias, girava in Via Montello e in Via San Donà, sotto la casa delle “ancelle della Sacra Famiglia” dove, nel costone roccioso, si notano alcune tombe puniche a camera. Tutto il fronte di Tuvixeddu, da Via Bainsizza verso Viale Sant’Avendrace, è utilizzato intensamente con le tombe a fossa, pozzo e camera. Sono sepolcri caratteristici che scendono fino a 8 metri di profondità. A Cartagine sono simili, ma arrivano fino a 30 metri. I pozzi sono spesso decorati con false porte, simboli religiosi, pitture geometriche con strisce parallele o che s’intersecano, divinità e simboli di Tanìt. Alla base del pozzo si aprivano le camere, da una a tre, e ciò suggerisce che fossero grandi tombe familiari. Una caratteristica che ritroviamo anche nelle tombe di Sant’Antioco e di Monte Luna di Senorbì, è la grande quantità di pitture, generalmente rosse, direttamente sulla roccia, anche se in qualche caso è presente l’intonaco…” (dal blog di Pierluigi Montalbano).

La foto del complesso archeologico di Tuvixeddu è di Francesca Cossu.