Sa morte secada

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di Giorgio Lecchi

Pilastri Gobekli Tepe con avvoltoi, rete di serpenti e altri volatili

Continuiamo il nostro viaggio sciamanico e parliamo di alcuni scritti di Dolores Turchi come ‘Lo sciamanesimo in Sardegna. La domanda che facciamo alla studiosa sarda è la seguente: da quando sono presenti in questa terra rituali sciamanici, colloqui con le anime dei defunti e gli spiriti di demoni o dei, le capacità terapeutiche di determinati personaggi e la conoscenza dei luoghi adatti a questo? La risposta è la seguente: «Dal periodo neolitico quando popolazioni asiatiche, durante le loro migrazioni, approdarono nell’Isola a ondate successive…

Arrivarono genti minoico-micenee non certo estranee ai culti estatici e astrali. Tracce vivissime della presenza orientale sono oggi lo ‘ziqqurat” di Monte d’Accoddi, le tombe rupestri del neolitico e le venerette di tipo anatolico ritrovate a corredo dei defunti. Ma sono soprattutto i miti, le credenze e i modi di dire che ancora vivono nella memoria collettiva delle vecchie generazioni a costituire il segno più prezioso di una sapienza dalle radici remote».

Ora ci sono recenti studi genetici che danno certezze in più sulle migrazioni nel Neolitico e rassicurazioni sono date anche dal fatto che ci sono parecchie reminescenze in periodi molto più recenti come sintetizza qui l’antropologa:” Non è un caso che i sardi fossero considerati dagli spagnoli, che dominavano buona parte della Sardegna alla fine del XV secolo, come persone che ‘estaven familiaritzats amb les metzines, avevano familiarità con le stregonerie”. E così abbiamo ‘le levatrici guardate con sospetto dalla Inquisizione spagnola in quanto molte di esse erano considerate esperte erbarie e quindi considerate anche fattucchiere”. Non basta: ‘Le levatrici conoscevano gli effetti della segale cornuta ed erano in grado di dosare la giusta quantità sia per lenire i dolori sia per affrettare le doglie della partoriente. Chi si adattava a fare la levatrice erano le donne sole, poverissime, prive di qualunque sostegno, in genere vedove che non avevano possibilità di sopravvivenza”.

Mangiare carne cruda -‘Tra le prescrizioni sinodali sarde, il sinodo di Cagliari del 1695, proibisce il digiuno nei giorni della festa del fuoco di Sant’Antonio del 16 e 17 gennaio. Il divieto consisteva di astenersi dal mangiare vivande cotte, quindi anche carne cotta e ciò conferma inequivocabilmente che ancora nel XVII secolo, durante questa festa, c’era gente che mangiava carne cruda. Nelle feste dionisiache infatti si mangiava la carne cruda, anzi si lacerava, perché era proibito l’uso del coltello. Questo per commemorare la morte di Dioniso che era stato sbranato dai Titani. Non è raro incontrare ancora oggi persone che in certe occasioni mangiano il fegato crudo del maiale”.

Attitadoras

L’eutanasia che fu -‘Tutti sanno che s’accabadora è una figura macabra dei secoli passati, generalmente una donna avanti negli anni, chiamata a por fine alla lunga agonia dei moribondi. Una forma di eutanasia posta in atto dai familiari, consenzienti per pietà, quando il proprio congiunto si dibatteva per giorni e giorni tra la vita e la morte, senza riuscire a effettuare il trapasso. L’intervento de s’accabadora si rendeva necessario quando un individuo si macchiava di alcune colpe ritenute di estrema gravità: bruciare un giogo, spostare un termine di confine, rubare un alveare, uccidere un gatto. Questi sembravano essere i delitti più gravi che avrebbero portato a una lunga agonia durante il trapasso, causando grandi sofferenze al moribondo che non riusciva a esalare l’ultimo respiro. A Ottana, tra le motivazioni che prolungavano l’agonia, si parlò del grave peccato in cui incorreva chi bruciava uno scanno”.

 

-‘Su durdurinu è un ballo che esclude totalmente la musica. I danzatori, mai più di tredici, si muovono al canto della sola voce che dà l’avvio alla danza. Quando la voce tace i ballerini continuano a danzare in silenzio, ormai sincronizzati, seguendo il rumore dei passi. Ne scaturisce pertanto un continuo alternarsi tra danza cantata e danza muta. Per il ballo comunitario c’era la piazza dove al posto de Su durdurinu si ballava su passu torrau che permetteva un maggiore allargamento del cerchio consentendo un ritmo più pacato. Viene spontaneo pensare che fossero proprio i balli di questo tipo quelli che un tempo si facevano entro le chiese”.

 

Oppure le Attitadoras segnalate in Sardegna e in particolare in Barbagia dalla sociologa Giovanna Mattana e la scrittrice Claudia Zedda. Sono delle prefiche, dove c’era morte c’erano loro, esclusivamente donne di qualsiasi età, fondamentali nei rituali funebri, nelle lugubri lamentazioni, dovevano con i loro canti raggiungere e scardinare i cuori dei partecipanti, variando in base al sesso, all’età e al tipo di morte, in caso di morte violenta dovuta a omicidio, inneggiavano alla vendetta, la portavano fino alla casa dell’omicida che, in alcuni casi, diventava vittima.

 

La lamentazione funebre era cosa riservata a tutti i morti, e Grazia Deledda in “La via del male” la descrive così.

 

“Nella cucina si svolgeva la ria, l’antica scena funebre, resa più caratteristica dal chiaroscuro dell’ambiente. Il focolare era spento, la finestra chiusa…”

 

“Le altre donne sedevano per terra, con le gambe incrociate, tutte avvolte nelle loro pesanti tuniche e il viso seminascosto dalle bende nere e gialle di lutto. Ogni tanto la porta s’apriva…”

 

 

 

 

 

 

“Nella cucina le donne si misero a piangere con frenesia:

“due parenti del morto cominciarono sos attitidos, canti funebri improvvisati. Cantavano una per volta, e ad ogni versetto le donne rispondevano con un coro di gemiti, singulti e grida…”

“… ora che la vedova non era più lì, (le attitadoras diedero voce) a tutta la foga della loro inspirazione poetica.” “Maledetto colui che ti ha colpito; maledetto. Maledetto: quante gocce di latte ho dato al morto, tante ferite ti trapassino il cuore, assassino!” Noi ci strappiamo i capelli, chiedendo vendetta al cielo. Sia maledetto il latte che nutrì il tuo assassino; spuntino rovi sul suo cammino!”

“Che la giustizia lo afferri e ne faccia strazio. Con sette colpi di pugnale bucarono il tuo cuore come si buca un pezzo di sughero: settanta anni ed altri sette duri la pena di colui che ti ha ucciso a tradimento.”

Un rituale antico, il cui scopo principale non era la vendetta ma quello di accompagnare il defunto lontano dai vivi e ricondurlo verso la strada corretta perché in Sardegna l’anima doveva attendere parecchio la sua liberazione, quindi anche se i morti erano parenti amati c’era il terrore che potessero tornare, per cui svolgevano un ruolo simile a quello dello sciamano neolitico accompagnatore di anime.

I defunti sardi, è bene ricordarlo, avevano poco a che vedere con quelli cristiani la cui anima prendeva la prima coincidenza alla volta del paradiso o dell’inferno. In Sardegna le anime vivevano un lungo purgatorio “terrestre” e i vivi con s’attitu non facevano altro che difendersi dall’anima del defunto che amavano sì, ma pure temevano che sarebbe tornato in collera per non aver compiuto le giuste lamentazioni e i giusti rituali; per questo vi era una serie di operazioni da fare come, coprire gli specchi, aprire le finestre, sventolare fazzoletti bianchi, graffiarsi, strapparsi i capelli e lanciare una ciocca sul cadavere.

Rituali atavici di quando le genti non avevano, forse, paura della morte, perché sapevano che era necessaria per continuare il ciclo vitale, riti che ricordano i riti dionisiaci delle Baccanti di Euripide, quelli di Cibele e Attis fino ad arrivare al “dio che muore” il sumero Dumuzi ma che rinasce ciclicamente come la stagione invernale che poi si rinnova in primavera come le stesse piante. Sono procedure che servivano per ingraziarsi le anime vaganti come quello di portare miele, pane, lo stesso graffiarsi e il taglio della ciocca di capelli, sono offerte al defunto che dopo il taglio-morte riprenderà il suo ciclo di vita. Non rimane quasi nulla di ciò nell’odierna Sardegna perché il cristianesimo ha cercato di cancellare o inglobare questi rituali.

Maimones

Vorrei spendere anche qualche parola per alcune maschere sarde, che a me ricordano figure ancestrali viste precedentemente in questo articolo, il ricondurle a sole maschere carnevalesche o a richiami a riti di fertilità mi sembra riduttivo. Per esempio le maschere di Merdules e Boes soprattutto quest’ultimo mi ricorda non solo quella del toro ma anche la figura del demone capra o come sos Murronarzos che ha il muso che ricorda il maiale e le corna caprine. Essa è scolpita nel legno di pero selvatico e anticamente veniva dipinta con il sangue di capra. A volte, veniva usato il teschio del maiale. Sos Murronarzos vengono legati con delle funi di cuoio (sas sokas) e maltrattati da uno o più guardiani anche qui parlano di richiami dionisiaci o come i Sos Maimones”, sono i seguaci di Dioniso che nel travestimento rappresentano, (con il loro rito di fertilità), la smania di essere posseduti dal Dio per divenire simile a lui. Si muovono a saltelli mimando l’atto sessuale e ogni tanto, interrompono la danza buttandosi uno sopra l’altro formando “sa nurra”, dando luogo ad una manifestazione orgiastica così come succedeva nel mondo greco, durante le feste in onore di Dioniso.

Non potrebbe invece avere collegamenti con il travestimento dello sciamano o con l’immedesimazione stessa nell’animale che da potere alla trasformazione, per cui corpo di uomo e testa di animale come nelle rappresentazioni di quegli essere demoni- sciamani neolitici e del bronzo antico?

Rinfreschiamo un attimo il concetto di sciamanesimo, cercando di catturare dei frammenti di quello che fu il sentimento primordiale che lo animava già dal paleolitico anche se è inevitabile cadere un pò nella visione classica. Comunque nei millenni a seguire ovviamente avrà subito varie trasformazioni che per noi saranno sempre difficili da interpretare. Lo sciamano innanzitutto è un uomo che ha particolari capacità, è predisposto a questa funzione ed ha notevole potere, il suo compito dovrebbe essere quello di entrare in contatto con una realtà non più ordinaria, ripartita in tre luoghi che sono il mondo sotterraneo, l’oltretomba dove il serpente è il padrone di casa e dove inizia ad aver a che fare con gli spiriti guida sotto forma di animali reali o fantastici.

Il luogo di mezzo è quello abitato dall’uomo ma anche dagli alberi, le acque, le rocce, altri animali e i loro spiriti, qui lo sciamano interagendo con queste forze può acquisire nuovi poteri di divinazione e di guarigione, inoltre funge da traghettatore di anime per quelle che non sono ancora trapassate. Per ultimo c’ è il terzo mondo ovvero il cielo che è la casa delle anime degli antenati, degli eroi, delle anime compiute, tutto ciò è collegato dall’albero cosmico, ” l’axis mundi” attraverso il quale lo sciamano passa da una dimensione all’altra.

Per fare ciò era necessario essere in uno stato alterato, di trance estatica che si otteneva, oltre che con l’utilizzo di sostanze psicotrope come particolari erbe, anche attraverso suoni con tamburi e danze frenetiche ma non solo…

Abbiamo rimarcato molte volte che diversi siti erano costruiti in particolari punti dove compaiono forze magnetiche e telluriche. In altri sono presenti frequenze molto basse in genere intorno ai 12hz, in altri ancora sono create tramite particolari accorgimenti e lavorazioni della pietra, basti pensare agli effetti acustici nei templi maltesi o a quelli del cerchio megalitico portoghese che vedremo successivamente. Questi spazi aiutano, probabilmente, anche lo sciamano ad alterare lo stato mentale per condurlo alla trance estatica.

Ora veniamo alla pratica, visitiamo altri luoghi dove questi riti sono forse stati rappresentati, rimaniamo in Sardegna e andiamo a Laconi, a Sas Concas Oniferi, Allai, Samugheo e villa Sant’ Antonio, Anela (Sos Furrighesos) (datate intorno al terzo millennio) e parliamo degli ormai famosi menhir. Premetto che le ricostruzioni che vengono fatte sono semplici ipotesi, anche se suffragate da diversi indizi, oltre al fatto che ci sono similitudini molto interessanti con petroglifi e rappresentazioni di siti nel Vicino Oriente.

Capovolti di SAS CONCAS e animale capovolto Gobekli Tepe

Parliamo delle Perdas Fittas, Menhir, pietre lunghe, alcune volte megalitiche, grezze o lavorate, lisce o scolpite, falliche o incave che riempiono molti siti sardi che vanno dal neolitico al nuragico. L’archeologia parla di influssi che derivano dal megalitismo nord occidentale, io non la penso così, come avete potuto constatare e constaterete se proseguirete nella lettura.

 

 

L’interpretazione finora data alle rappresentazioni presenti sui pilastri dei paesi prima citati è che quelle del capovolto, il più presente, rappresentino l’anima dell’antenato, forse un capo, un eroe, che cade proiettandosi verso la madre Terra e verso un pugnale a doppia lama simboli di un personaggio di alto rango e militare.

I rilievi sono di vario tipo figure con” bracci” e gambe a “candelabro” o contrapposte, con solo” bracci” a formare una specie di tridente; poi c’è quello che con “i bracci” forma un cerchio e il corpo che finisce con una punta, a questi si possono affiancare i capovolti di Oniferi, Dorgali, delle Domus di Cheremule e Moseddu. Più o meno viene data la medesima interpretazione, qui però non sono presenti i pugnali. In precedenti articoli mi ero sbilanciato aggiungendo al fatto che fossero anime di antenati che precipitano verso l’oltretomba, la similitudine con alcune immagini di Catal Huyuk dove è rappresentato il rito scarnificatorio, in alcuni dipinti é presente la figura di un uomo capovolto che viene lasciato cadere dall’alto della torre verso terra, qui manca la testa, che, probabilmente, era stata precedentemente staccata come da rituale. Vorrei però associare un altro parallelo interessante che ci porta ancora una volta a GT e siti limitrofi. Come abbiamo già appurato sono scolpiti su alcuni pilastri a T belve, forse rettili, una anche con testa rotonda che sono posizionati con il capo rivolto verso il basso e con gambe e braccia ortogonali, proprio come i “capovolti”; la stessa cosa, anche se verso l’alto, avviene per la così detta “dea partoriente” di Catal H. che sembra più simile al rettile di G.t. più che a una dea come postulato dal Lewis.

Petroglifo con serpente, simil tridente e/o Dio Ninurta con tridente capovolto monte Bego

 

Immagini simili le ho trovate addirittura in una tomba etrusca la tomba dei Baccanti(Tarquinia) dove sembra essere presente un simbolo similare alla dea/animale prima citati o a un capovolto, ci sono addirittura animali presenti anche a G.T. e un danzatore che è messo con un braccio rivolto verso l’alto e uno verso il basso proprio come la dea con testa a fungo di G.T. o quella di Alatri. Mi sono chiesto anche se le simil H e le I presenti sui pilastri di GT non siano stilizzazioni dei pilastri stessi o degli animali posti con arti ad angolo retto, magari anche ruotati, ma è solo una suggestione, inoltre le false porte di questa tomba hanno qualcosa che ricordano i pilastri a T.

 

 

Ci sono poi delle incisioni su pietre provenienti da Tell Qaramel, Jerf El Ahmar e altre località, sono dei frammenti dove sono presenti i simboli a tridente, U, simboli a zig zag, M, V, linee con punti, cerchi concentrici e tanto altro del tutto simili a quelli di Laconi e di altre località neolitiche, oltre al fatto che i menhir sardi hanno scolpita una forma a T sulla parte alta, forma a T riscontrabile anche nelle dee cicladiche (prive di volto a parte il naso) trovate in varie Domus de Janas.(addirittura vi è una rappresentazione di una specie di T nella domus de janas di Baldedu SS)

 

 

Rimanendo in ambito di simboli particolari che, secondo me, hanno un legame pur essendo così lontani, sono quelli che hanno a che fare con il cerchio, le spirali o protomi di ariete, come quelle di Perfugas. Queste protomi a me sembra però che fissino l’osservatore così come fanno gli stessi occhi delle cosiddette “dee oculari” che a loro volta ricordano il simbolo delle U orizzontali inframezzate da una linea verticale (simbolo ittita che indica la divinità e che, incredibilmente, troviamo a Gobekli Tepe

 

Testa d’Ariete / dea oculare domus di Perfugas/ Simboli GT E Ittiti richiamano il simbolo della divinità Oculare

 

Per rimanere in tema di cerchi ci sono alcuni petroglifi di Kortik tepe, Tell Qaramel, Jerf El Ahmar e GT ma anche Ittiti e mesopotamici molto simili a quelli sardi come la pintadera di Torralba, terra pinta di Mamoiada e molti altri oltre ai segni a u con puntini nel centro o linee e punti come su alcune muraglie nuragiche ma qui si aprirebbero altri lunghi capitoli.

 

Tornando al “capovolto” alcuni di loro si dirigono verso un oggetto definito pugnale Remedelliano specialmente quello con il manico arrotondato, simbolo di potenza, virilità e alto grado, faccio presente che la cultura di Remedello discenderebbe, come la Rinaldoniana, da genti egeo anatoliche, in ogni caso a me sembra più un oggetto cultuale, ricordo che in un rito Hurrita veniva utilizzato un particolare pugnale per creare il cerchio che metteva in connessione il mondo dei vivi con quello dei morti. Questi pugnali hanno anche al loro interno dei simboli a V, simili a quello sul collo della statua di Urfa, che, a sua volta, richiama la classica V sull’avvoltoio rappresentato sull’omonimo pilastro di G.T. e le V presenti in alcune domus de Janas.

 

L’ipotesi alternativa che volevo proporre, proprio in virtù di questi vari simboli, è quella che rappresenterebbe si un uomo o un antenato ma sciamano nell’atto di trasformazione e nel viaggio verso il mondo sotterraneo, a Laconi, in alcuni casi, i “bracci” a cerchio sembrano ali di avvoltoio, altre volte sembrano un ragno o un rettile come ve ne sono diversi a GT. Il pugnale messo in orizzontale come fosse una specie di labrys sta forse ad indicare una porta verso l’aldilà o una dualità che simboleggia morte e rinascita?

 

Mi vorrei ricollegare ancora al simbolo dell’omphalos, citato prima, visto sui pilastri di Gt che hanno le braccia che convergono verso la pancia e in particolare sembrano soffermarsi sull’ombelico, le vediamo anche a Laconi, nelle stele della Lunigiana, qualcosa anche in Toscana, assomigliano in parte anche a quelle Sarde oltre ad avere tutte il capo a T, doppio o a fungo molto somigliante a quello della dea e ai serpenti trovati a Gobekli, direi anche somigliante a molte altre dee neolitiche e più recenti come le dee di Alaca Hoyuk e altre egeo anatoliche.

A Sas Concas abbiamo un’altra cosa interessantissima legata allo sciamanesimo e al culto astrale.

I segni delle stelle che gli archeologi trovarono già dal Paleolitico nella grotta di Lascaux (vedi studi di Michael Rappenglueck ) agli altri siti neolitici che abbiamo o stiamo esaminando, danno adito a pochi dubbi sul fatto che gli antichi avessero conoscenze astronomiche approfondite.

Il sito è caratterizzato dalla presenza di una domus de janas di circa 20 camere, datata al 2.700 AC.

Come dice lo studioso Enrico Calzolari: “All’interno dell’ipogeo si trovano numerose incisioni rupestri, che, esaminate con l’utilizzo delle etnoscienze e della etnoarcheoastronomia, costituiscono un “unicum” semantico, legato alla “cosmogonia sciamanica”, collegata col tema della “costellazione-generatrice”.

“Le incisioni raffigurate all’interno rappresentano:

1) la costellazione dell’Orsa Maggiore (Ursa Major) con la stella Arturo;

2) la costellazione di Cassiopeia e due coppelle che potrebbero rappresentare la costellazione dei Gemelli (o Auriga?);

3) la linea di demarcazione fra il cielo e la terra, tracciata a circa trenta centimentri dal soffitto, per tutto lo sviluppo perimetrale dell’ipogeo, e la farfalla;

4)  i “capovolti”, cioè l’immagine dei trapassati, raffigurati a testa in giù, a similitudine di quanto è stato rappresentato nelle statue-menhir del Museo di Laconi;

5) il grande antropomorfo isolato (lo sciamano?).

Ad ulteriore conferma delle suddette ipotesi dobbiamo ricordare la presenza, nelle immediate vicinanze del sito (m 250) della stele cosiddetta Astrale (semicircolare), caratterizzata, come scrive il Prof. Anati da “coppelle che sembrano riprodurre delle costellazioni” (E. Anati, I Sardi. Jaca Book)”.

La perfezione semantica della cosmogonia sciamanica raffigurata in “Sas Concas” sta nell’aver rappresentato, in un unico vano, gli elementi della farfalla e della costellazione-generatrice, che in questa fattispecie appare essere l’Orsa Maggiore, per la specifica posizione nella cella.

La tematica delle costellazioni viene riproposta all’esterno dell’ipogeo.

La valenza probatoria di “Sas Concas” è stata però accentuata dall’aver voluto intenzionalmente rappresentare una particolarità spazio-temporale, relativa al 2 700 a.C.!

Infatti colpisce immediatamente l’osservatore il fatto che la costellazione Ursa Major (Umaj) sia rappresentata con le quattro ruote del carro su una parete dell’ipogeo (a sinistra per chi entra) mentre le stelle del timone siano rappresentate nell’altra parete.

La linea di separazione delle due parti della costellazione Umaj è formata dalla linea di contatto fra le due pareti; osservando con la bussola questa linea, dal centro dell’ipogeo, si scopre che essa è posizionata in direzione Nord.

Così lo studioso continua :“Poiché ciò non poteva essere stato casuale (l’opera di scavo di un ipogeo, ancorché in tufo trachitico, è di per sé una evoluta manifestazione di precisa volontà collettiva, guidata dallo sciamano) si è effettuata una ricerca di archeoastronomia con il programma Guide 7.0 ed è emerso, fatto strabiliante, che proprio nel 2700 a.C., alla mezzanotte del solstizio d’inverno, la costellazione Umaj appariva così come è stata rappresentata, tagliata a metà dalla linea del meridiano contenente il Nord (di allora) e lo Zenith.”. Questa testimonianza è ulteriormente importante ai fini di questi studi poiché avvalora quello che stiamo affermando sullo sciamanesimo in Sardegna e sulle implicazioni astrali ad esso legate, per cui si possono vedere sotto un’altra ottica i vari simboli come le coppelle fuori e dentro le domus o i simboli a V o M, le labrys (simbolo dei gemelli e di dualità), i cerchi concentrici così come anche in vari altri siti neolitici. Il cerchio è contenitore dell’anima (culto dei crani e rappresentazioni di cerchi-teste sui pilastri di GT o i dipinti murali di Catal H.) o foro da cui passa, con l’aiuto dello sciamano, l’anima per raggiungere le costellazioni-generatrici (costellazioni dove arrivano le anime dei morti accompagnate dallo sciamano-avvoltoio dopo il distacco dal corpo e arrivano come sulla terra mediante momentanea incorporazione in una farfalla o in un’ape.

Altra teoria astrale molto interessante, esempio illustre che accomuna la Sardegna ai siti Paleolitici come Chauvet e Lascaux oltre a quelli Neolitici preceramici e ceramici è l’importanza che hanno determinate costellazioni nei suddetti periodi, parliamo della costellazione del Cigno in particolare quella che vede ancora una volta protagonista Gobekli Tepe, i 4 circoli più antichi e i due pilastri al centro di ogni cerchio, basti notare la posizione dei pilastri centrali e la loro inclinazione che differisce leggermente da un recinto all’altro. La coppia dei pilastri registrerebbe il variare, nel corso di un migliaio d’anni di osservazione, della posizione di Deneb al tramonto.

Il team dell’ing. Rodney Hale, che è specialista nella ricerca dei puntamenti astrali dei siti preistorici, ha dimostrato che i pilastri hanno un orientamento preciso e che, a seconda dello spostamento della stella, causa moto precessionale, sono stati costruiti in modo sequenziale i 4 cerchi e i due pilastri lievemente “ruotati” rispetto ai precedenti.

Questo spiegherebbe anche perché alla fine del loro utilizzo venivano ricoperti e si costruiva quello successivo. Ritorniamo nuovamente sulla cosiddetta “pietra dell’avvoltoio” posta nel recinto D, numerata come Pilastro 43. I bassorilievi presenti di cui abbiamo, ampiamente, dato alcune spiegazioni, sembrerebbe che possano avere più livelli interpretativi. Abbiamo già detto che l’avvoltoio, in tale posizione, potrebbe essere uno sciamano, il cerchio, con cui gioca l’uccello, la testa separata dall’uomo itifallico posto in basso, questa raffigurazione porta a pensare a riti ancestrali sciamanici e a culti dei crani per i quali si riteneva che l’anima del defunto risiedesse nella testa, così come visto a Catal H. e in Sardegna. Il pilastro però presenta anche altre raffigurazioni di cui non possiamo scordarci e che potrebbero dare appunto un livello interpretativo diverso o più completo.

Esso rappresenterebbe, per l’innaturale posizionamento delle ali, la costellazione del Cigno, mentre in basso sarebbe rappresentata la costellazione dello Scorpione.

In questo modo la pietra ci racconterebbe sì il rituale in cui lo sciamano -avvoltoio si prenderebbe cura di questa testa-anima ma il fine sarebbe quello di condurla in un preciso luogo celeste.

La stessa posizione strana assunta dall’avvoltoio potrebbe essere fatta con la ferma volontà di rappresentare una costellazione che a tutti gli effetti pare essere quella del Cigno. I contorni dell’uccello si sovrappongono perfettamente con quelli della costellazione. La testa del volatile occupa la posizione di Deneb. Non deve sorprendere l’intercambiabilità dei due uccelli, penso che sia dovuto all’importanza che hanno avuto particolari uccelli piuttosto di altri in determinati periodi e luoghi. Gli altri due uccelli sempre nella parte superiore corrisponderebbero alle costellazioni di Aquila e Lyra. Appena al di sotto di queste corre una linea di demarcazione che corrisponderebbe all’eclittica. Rimane ora da capire se lo scorpione e la sua posizione sul pilastro possa avere una qualche valenza astronomica. Per questo ci affidiamo a Giorgio de Santillana che nel “Mulino di Amleto” parla del binomio “madre-scorpione” di molte tradizioni popolari e del poco credibile abbinamento se non visto in chiave astronomica. In astronomia lo Scorpione incontra l’eclittica per nove giorni all’anno e allo stesso tempo si trova con Antares (una gigante rossa, “antiMarte” questa dea scoprione avra’ diversi corrispettivi in diverse civiltà successive dall’ittita con Ishara, in Egitto con Selkis, in Sardegna abbiamo il toponimo Antas che si collega ad Antares ) all’estremità meridionale della Via Lattea. Vista così la cosa può vedersi in un’ottica appunto sciamanica, tale collocazione potrebbe segnalare una via celeste del nord che è quella vista nella parte alta del pilastro e questa meridionale che dà la possibilità di compiere alle anime un percorso alternativo, grazie all’intersezione dei due tracciati celesti che consentono un immaginario “cambio di corsia”. Ecco come Giorgio De Santillana si esprime in merito al destino dell’anima dopo la morte:”Le anime dei morti sono accolte da una stella all’estremità settentrionale della via Lattea, là dove essa si biforca; essa indirizza i guerrieri lungo il sentiero fioco e difficile e le donne e coloro che muoiono di vecchiaia lungo il sentiero più luminoso e più facile. Le anime viaggiano dunque verso sud; alla fine del sentiero sono accolte dalla Stella degli Spiriti e la dimorano”.

-Segue-