I NURAGHI E LA CIVILTA’ SARDA, IN CARCERE, AD ALGHERO. “Un nuraghe per tutti”, appunto.

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di Antonello Gregorini

Il maggio del libro è la rassegna organizzata dalla libreria Cyrano, di Alghero, dai bravi Elia e Giammario, in accordo con la Casa di Reclusione Giuseppe Tomasiello, il carcere, sempre di Alghero.

Oggi 25 maggio veniva il mio turno per la presentazione del libro “Un Nuraghe per Tutti”, Condaghes editore.

Ore 9,30, puntuale, pur provenendo dal Capo di Sotto, prima in libreria, di fronte ai giardinetti pubblici, poi davanti al portone del carcere.

Le prescrizioni sono: permesso richiesto con largo anticipo, previo invio di documenti; niente computer; pennina USB contenente solo i files immagine da proiettare. Alla guardiola si lascia anche il cellulare, quindi niente modaioli selfie con la platea.

E’ la prima volta che entro in un carcere e la battuta d’uopo, all’ingresso, è la seguente: “Ti fanno entrare facilmente ma fanno più difficoltà all’uscita”.

La guardia, una donna, non trova il mio permesso, non le hanno aggiornato la lista. “Se non c’è, non entra”. Punto. Arriva la lista aggiornata. Cambia l’espressione e il tono: “Si accomodi”.

Vengo accompagnato da un folto gruppo di simpatiche insegnanti e da un educatore interno alla struttura, piemontese, persona cortesissima (da proverbio), in Sardegna da soli sei mesi, per cui totalmente “ignorante” riguardo i nuraghi e la Civiltà Sarda.

Attraversiamo dei corridoi su cui si affacciano le prigioni d’isolamento d’altri tempi, immagino non più in uso, con porte in legno pesante, i portellini d’affaccio e un foro di aerazione sopra all’architrave. Una visione per niente allegra ma, d’altronde, siamo in un carcere.

Entro nel “chiostro”, un cortile ampio, un patio, dove diversi detenuti fanno prendere tranquillamente il sole, seduti su comode sedie, ai bicipiti tatuati, torniti da dure sessioni in palestra.

Riconosco fisionomie e linguaggi slavi, nord africani, nigeriani e di altre nazioni “nere”, albanesi, italiani e, infine, qualche sardo.

Entriamo in un vasto salone contornato da scaffalature ricolme di libri alle pareti. Poca luce, finestre alte, luci accese.

Arrivano il computer e il proiettore, portati da un detenuto nord africano, un gigante di un metro e novanta, atletico, di una gentilezza estremamente formale, religiosa, islamica.

Si presenta e stringe la mano con l’inchino: “Buongiorno Professore!”. Mi presento, ricambio il leggero inchino: “Namastè”, penso.

La sala si riempie. Infine saranno una trentina di persone, compresa qualche guardia penitenziaria.

Esordisco chiedendo quanti fossero i sardi in sala, per orientare gli argomenti in rapporto alla composizione del pubblico. Quattro sardi in tutto che al termine diventeranno sei.

Spiego che ciò che dirò può essere empaticamente inteso come valido per qualsiasi regione “debole” del mondo che, a causa delle esigenze storiografiche e nazionali del più forte, subiscono un relativo oscuramento della Storia, della Lingua e in generale della Cultura.

Parto dalla proiezione della Mappa della Sardegna Preistorica e mostro l’evidenza dell’enorme lascito di quella Civiltà.

Racconto delle ragioni originarie della costituzione di Nurnet

Spiego le varie forme monumentali, distinguendo i periodi. Parlo del taglio che l’accademia ha dato alle conoscenze sulla Sardegna Antica. Del torto e del danno che a mio avviso ci è stato fatto. Spiego quale sia l’evoluzione in corso e quali conflitti abbia generato.

Alle parole “Faida” e “Fatwa” qualcuno drizza le orecchie:  Ovviamente parlavo della faida fra accademici e appassionati e della fatwa che certi ambienti della Soprintendenza e dell’Accademia hanno lanciato contro il variegato mondo degli appassionati, fra cui mi ricomprendo, insieme a Nurnet.

“Hanno ucciso qualcuno?”, mi domanda un ragazzo scuro con la barba corta in fondo alla sala.

Colgo la palla al balzo e gli chiedo di dov’è. Di Orgosolo, risponde. “In paese ci sono almeno cinque nuraghi”, dice, “il più bello è il nuraghe Mereu”.

Sorrido e dico: “Quello che avete fatto saltare in aria con la dinamite, per aprire una breccia alla ricerca de s’ischisorgiu…”, rido.

Ride anche lui e mi racconta che in tanti andavano alla ricerca degli omini di bronzo, che qualcuno ci si è fatto la casa. “La verità! Io non ho mai visto uno…” conclude.

Allora, per riportarlo con la mente a casa, cito le Domus de Janas di Lophasa, poi quelle della vicina Mamoiada, Orgurù, che lui conosce meglio.

Un vecchio detenuto, di Isili, mi chiede se ho l’immagine de Is Paras. Gliela mostro. “Il nuraghe bersagliere”, dice, “C’era una chioma in testa al nuraghe, un albero, come quella di un bersagliere. In queste foto non c’è più…”

Arrivano le domande dal pubblico: “Ma cos’è un nuraghe, come è fatto?”, mi chiede il gigante nord africano.

Che stupido, ha ragione, ho parlato già più di mezz’ora senza pensare alle cose più semplici e fondamentali, date per scontate: “Un nuraghe è una torre”. Proietto l’immagine ed entro nella tholos, faccio vedere e spiego alcuni particolari costruttivi, entro nel dettaglio delle difficoltà costruttive con le tecniche dell’epoca, ma anche odierne. Spiego che la torre più alta arrivava a 28 metri e conteneva tre tholos, non in asse, con le scale elicoidali dentro muri spessi quattro metri.

Cerco di far comprendere quale fosse la maestria e la Civiltà sottintesa a tanta magnificenza, in un’epoca così remota.

Dopo un’ora sono ancora tutti lì, ascoltano. Nessuno se n’è andato, cosa che naturalmente fanno, se annoiati, senza remore.

Fiocca qualche altra domanda, anche da parte dell’educatore piemontese il quale, ammette che, non aveva la minima conoscenza della grandezza della Civiltà Sarda. Approfondirà.

Faccio dono di una copia del libro e lo poggio sul tavolo. Alla fine tutti mi ringraziano e applaudono. Sono comunque soddisfazioni.

Si avvicina il ragazzo di Orgosolo. Mi stringe la mano. Gli chiedo il nome e quando uscirà di galera.

“Io esco mercoledì”, dice.

“Bene, allora arrivederci,”, sorrido.

“Professore, se passa in paese chieda di G… C…. Ci conosciamo tutti…”

Eja, così ci beviamo qualcosa insieme,” rispondo.

Saluto tutti e faccio per uscire.

Si avvicina il gigante nord africano e con un altro mezzo inchino mi porge un dono: un calendario prodotto da loro, in collaborazione con la locale scuola artistica.

Il calendario realizzato dai detenuti di Alghero, pagina di febbraio 2018

 

Ringrazio e in cambio gli indico il libro offerto in dono all’istituto.

Non c’è più sul tavolo. E’ nella mani del ragazzo di Orgosolo che, avido, sembra volerlo leggere.

L’insegnante glielo chiede indietro: “prima lo registriamo in biblioteca, poi lo richiedi per la lettura”, gli dice.

Speriamo faccia in tempo a leggerlo, prima di mercoledì, quando tornerà in paese.

Sono le 12 e devo tornare anch’io, in fretta, a Cagliari, per il lavoro.

Che dire… Una bella mattina. Bella gente e tanta umanità. Sono soddisfatto.