CRONACHE NURAGICHE

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L’austerità sepolcrale di molti monumenti (Domus de Janas, Tombe dei Giganti), le raffigurazioni religiose, le armi di bronzo, le evidenze storiche e molta narrativa ci dipingono i Sardi preistorici e i Nuragici con note di esasperata cupezza. Ci piace immaginare invece che la natura generosa dell’Isola, la sicurezza garantita dal mare e le coste scoscese, le mille fonti, i fiori e la mitezza del clima abbiano consentito ai Sardi di quei tempi di vivere almeno lunghe parentesi più piacevoli e serene di quanto oggi tendiamo a rappresentare. Per questo vorremmo proporre, fuori dagli schemi usuali di Nurnet, una serie di brevi episodi che raccontino immagini possibili di quelle vite. La scienza ci dice che, alla nascita, gli umani di allora  e quelli di oggi sono identici e solo l’ambiente e l’educazione ne traccia le differenze. Gli impulsi amorosi, le esigenze, le scaltrezze, le ingenuità sono le stesse. Ci si perdonino le molte stravaganze archeologiche e storiche, ed anche qualche inciampo poetico.

Testi di Marco Efisio Chilosi,

Disegni di Gerolamo Exana

 

 

 

CRONACHE NURAGICHE

  1. Mio cugino, il fenicio

Mio cugino ha sedici anni, occhi chiari e un sorriso gentile. E’ figlio di mio zio Sare, il marinaio. Sare è fratello di mio padre, ma non somiglia a lui, è alto, forte e ben curato. E’ considerato un bell’uomo nonostante una cicatrice al viso.  E’ sempre allegro, ironico e ama raccontare storie di viaggi, luoghi esotici e lontani, gesta eroiche  e avventure galanti. La moglie di mio zio non c’è più da molti anni, e mio cugino è cresciuto con me, nella mia famiglia, vedendo il padre una o due volte l’anno. Una famiglia benestante la nostra, con della terra da coltivare, animali da curare, cibo in abbondanza. Ma semplice: pochi abiti un po’ grossolani, vasi per cucinare robusti ma con poche decorazioni. Una casa relativamente grande, con tre locali, un tetto di legno e paglia, ben costruito. Non ho mai sentito freddo, anche in inverno. Il Nuraghe manno lo vediamo da lontano, ci protegge e ci consola; ci fa sentire uniti alle famiglie che vivono lì accanto. Noi lo possiamo godere solo da lontano. Dalla porta della nostra casa lo vedo spuntare sopra grandi alberi. In cima al bastione c’è sempre qualcuno. Fa capolino e si guarda intorno. Ho fatto anch’io qualche turno in passato, non al manno, ma al nuraghe più piccolo, sulla collinetta che guarda verso il mare, verso la lunga spiaggia dove arrivano le navi quando è brutto tempo e le onde impediscono di raggiungere il piccolo porto dopo la scogliera. E’ bello stare lassù a far da guardia. Godi di una vista ampissima, ti senti partecipe, responsabile, un po’ fanatico. E poi capita che qualche ragazza passi lì sotto e si metta sbirciarti. Una volta, ricordo, avvistai un incendio. Era estate, di notte; la prima avvisaglia fu un odore di fumo, quasi piacevole, come di arrosto. Poi vidi il bagliore, verso il colle delle sacre tombe. Ma in basso, dove ha la casa e il gregge Lula, il pastore. E infatti era la sua capanna a bruciare. Il suono del mio corno aveva causato un bel trambusto, svegliando tutti. Ma il povero Lula e molte delle sue pecore furono salvi. Un bel cacio in omaggio, giorni dopo, permise a mia madre di sottolineare come il nostro fosse più saporito di quello, benché Lula fosse considerato un professionista. Un bel dono per me, specialmente per gli occhi chiari della figliola che lo portò. Mia madre è sempre pronta a vantarsi delle nostre doti, anche quelle delle mie due sorelle, Iri e Sunari, due vispe e simpatiche sempre pronte a divertirsi, ma che proprio belle non sono. Hanno preso da mio padre, tarchiato e bruno. Non come suo fratello Sare. E qui torniamo a mio cugino, il “fenicio”. Questo soprannome lo ha avuto da poco, da quando è tornato a vivere col padre. Sare il marinaio è tornato da due anni al paese, e vive in una bella casa formata da quattro capanne, un unico ingresso, una grande cisterna per l’acqua. Mio cugino dal ritorno del padre è cambiato. Non nei nostri confronti, per me è sempre un fratello, ma nei modi, nel vestirsi, nel considerare la vita. Dal padre ha assorbito le mille cose che riempiono il bagaglio di chi viaggia, chi vede, tocca, gusta e riceve dal mondo. Da quel mondo misterioso e affascinante che il grande mare nasconde a chi vive nella nostra isola, che divide e unisce chi osa e può affrontarlo. Ora mio cugino gira per strada con i capelli curati, indossa amuleti e gioie al collo e alle caviglie. Talvolta ha le palpebre scurite da tinte che ne risaltano gli occhi. La cosa è imbarazzante quando giochiamo nel cortile col cane, ma molto fastidiosa quando attira come il miele le ragazze più belle. Non sono pochi i suoi amici che vedo al villaggio seguire la stessa moda, e che raccolgono grande successo tra le coetanee e grandissimo disprezzo da parte delle madri. Le anziane ricordano infatti che le collane di gocce di sabbia, forgiate dai fulmini del sacro Toro, erano un tempo ad ornare la Dea Madre, non futili e malfatti gingilli per maschi vanitosi. Per ora mi astengo dal giudizio, anzi mi son trovato a difenderlo per quelle “stramberie”. Le mode, gli oggetti, quel particolare modo di parlare e di vestirsi, dicono, è comune nelle lontane terre, dove un tempo combatterono i nostri guerrieri. Con quelle lontane città ora scambiamo merci, lana, olio e metalli di miniera. Una nuova aria si respira nella nostra comunità, c’è più allegria, più voglia di vivere. Con mio cugino e altri amici ci stiamo organizzando con tamburi, canne da suono e corni. Cambiamo le antiche danze con nuovi ritmi e cori. Sarà un avvenimento il nostro debutto al prossimo solstizio.

  1. La collana di gocce di sabbia

E’ successo un guaio. Mia sorella Sunari, la maggiore, ha sentito quel che dicevo riguardo alla sua bellezza. E’ chiaro che scherzavo, anche se non completamente. Da quel giorno non mi aiuta più a portare le pecore nel recinto e ha smesso di difendermi con mia madre. Anzi. Le ha riferito, la malalingua, che al terzo giorno, anzi notte, di plenilunio avevo accompagnato mio cugino al Nuraghe manno per trovare degli amici. Non che non potessi andare,  ma ha riferito che mi ero messo alla caviglia un cerchio di perle di sabbia verdi e rosse. Un prestito del cugino. Quell’ornamento prudeva un po’, ma aveva un grande effetto su quella figlia del pastore Lula di cui avevo parlato. Si chiama Reza, ha 12 anni ed è bellissima. Abbiamo parlato a lungo, seduti nella panca di pietra della capanna delle riunioni. Da pochi anni il nuovo sacerdote capo, un bel vecchio dalla barba bianca, padre di mia madre, ha mollato le redini che impedivano l’accesso alla grande sala al di fuori dei consessi ufficiali e noi giovani possiamo  utilizzarla per le nostre serate estive. Sempre ovviamente con rispetto e senza debordare. Solo qualche fermentato per la timidezza e qualche focaccia rimasta da cena. Con Reza le mie parole profonde e filosofiche non facevano molta presa (ero molto esperto nel riconoscere le costellazioni e descriverne le rotazioni nelle diverse stagioni) ma i suoi occhioni erano fissi sulle perle di vetro che ciondolavano dalla mia caviglia. Dalle perle passarono ai miei, con espressione inconfondibile. Quel dono improvviso e maldestro produsse l’effetto sperato, un grande bacio sulla mia fronte. Ma fu subito fonte di rimorso e preoccupazione. La trattativa col cugino fu breve e impegnativa. Otto turni al Nuraghe di costa, sette punte di ossidiana e un mantello di lana, nuovo. Unico sollievo fu vedere la faccia di mia sorella, la malalingua,  di fronte al sollievo di nostra madre nel non vedere al mattino l’orribile ornamento alla mia caviglia.