DAVVERO SONO MODELLI DI NURAGHE?

di Antonello Gregorini

Il commento di Alfredo Carannante sotto le immagini del cosiddetto modello di nuraghe pubblicato su Nurnet da Marco Cocco, conservato presso il Comune di Norbello, mi induce alcune osservazioni sulla definizione di “modello di nuraghe” spesso data a questi manufatti.

Chi non ha mai avuto dubbi su questa definizione è persona portata evidentemente alla fede verso la letteratura scientifica.

Essa è il fondamento principale della conoscenza ma, tuttavia, anch’essa deve essere approcciata con mente aperta e critica, soprattutto se si ha avuto modo di approfondire e leggere un buon numero di siti e libri.

    

Modello nuraghe Norbello

Alfredo Carannante:

“Torchio? Bisognava fare analisi archeometriche su superfici… Non posso certo dirlo io. Non conosco il contesto archeologico né i dati di scavo. Bisognerebbe verificare se sono stati prelevati campioni del sedimento poi processati setacciati e flottati per recuperare semi. La presenza abbondante di vinaccioli confermerebbe ipotesi. Bisognerebbe sapere se sono stati analizzati chimicamente i depositi di superficie del reperto per sapere che liquido scorreva dalla canaletta di scolo. Mosto? Olio? Sangue?… Così solo a guardare la forma si possono partorire tante ipotesi fantasiose e quella del torchio mi pare la più probabile anche per il canale di scolo e perché non presenta i tanti caratteri tipici dei modelli di nuraghe.”

Già il professore di architettura Laner in più occasioni contestò questa indicazione, soprattutto per i modelli di Mont’e Prama, sostenendo che questi oggetti fossero dei sostegni di supporto per altro, capitelli o analoghi. Secondo Laner in molti di questi casi quelle riportate sono “chevron”, losanghe o denti di lupo, tutt’altro quindi, o semplici decori richiamanti simboli attinenti la sfera del sacro.

Personalmente, da profano, trovo interessanti le considerazioni di Laner ma non condivisibili, soprattutto nel caso di Mont’e Prama, dove la configurazione della forma dell’edificio nuragico polilobato sembra più che evidente.

 

In altri casi, invece, la forma riprodotta nei coni tronchi, rovesciati, in testa ai manufatti lapidei, con quelle scanalature parallele ma non emergenti, difficilmente possono definirsi come rappresentazione artistica di sintesi dei travetti aggettanti che coronavano le torri nuragiche.

A riguardo troviamo degli esempi significativi nei cosiddetti “modelli di nuraghe” di Su Monte, Sorradile e in quello molto simile di Su Mulinu, Villanovafranca.

 

Modello di nuraghe integrato in vasca. Su Monte – Sorradile

 

Modello di nuraghe integrato in vasca Su Mulinu – Villanovafranca

 

In effetti quello di Norbello è addirittura quadrato in sommità, tanto da somigliare più a un capitello che ad altro. Inoltre in esso si è riscontrato che la concavità è leggermente inclinata verso la scanalatura che scaricava un qualche liquido verso l’esterno, forse in una vasca. Una macina quindi, si domanda intrigato Carannante, che lamenta anche l’assenza di rilievi archeometrici.

La scanalatura esisteva anche nell’analogo di Su Mulinu, Villanovafranca, che, per coincidenza, prende il nome del luogo dalla macina per antonomasia.

Il terzo analogo di Su Monte, a guardarlo in questa prospettiva, con quella vasca in muratura integrata, con la superficie superiore liscia, facente pensare ad un appoggio per bacile, potrebbe far pensare a una macina, per vino, o per olio, o per altri liquidi alimentari.

Il quarto analogo sarebbe quello di Monastir, paradigma di macina-torchio per vino nuragico.

Torchio per la produzione di vino risalente all’epoca nuragica

 

In conclusione sostengo, senza alcuna pretesa di scientificità, che queste analogie potrebbero essere di stimolo per un maggiore approfondimento degli studi di questi manufatti, in particolar modo alla luce delle nuove scoperte che vedono i Sardi nuragici come produttori di vino e, nel caso di Sant’Imbenia, esportatori dello stesso nel bacino Mediterraneo in partenariato con i mercanti Fenici.