I tesori di Tartesso

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di Giorgio Valdès

“Come decima fatica gli fu ordinato di catturare la mandria di Gerione ad Erizia.  Erizia è  un’isola bagnata dall’oceano; è adesso chiamata Gadira.  Quest’isola era abitata da Gerione, figlio di Crisaore e figlio di Calliroe, a sua volta figlia dell’Oceano….così viaggiando attraverso l’Europa per conquistare la mandria di Gerione abbattè molte bestie selvatiche e mise piede in Libia e, procedendo verso Tartessus, eresse come limiti del suo viaggio due colonne ad indicare ad ognuno i confini dell’Europa e della Libia.

Ma essendo troppo scaldato dal Sole nel suo viaggio, tese il suo arco contro al dio che in ammirazione del suo coraggio, gli diede un calice d’oro nel quale lui attraversò l’oceano. Arrivato a Erythia (Gadira) alloggiò su Monte Abas. Comunque il cane, sentendo la sua presenza, gli si gettò contro; ma lui lo abbatté con la sua clava, e quando il mandriano Euritio venne in aiuto del cane, Eracle uccise anche lui…. e veleggiando attraverso Tartesso restituì il calice al sole…. “

Così Apollodoro (o pseudo Apollodoro) raccontava della venuta di Ercole in occidente, per conquistare i buoi rossi di Gerione, primo re mitologico di Tartesso.

Ancora una volta le “Colonne” – al di là delle quali, come raccontava Platone, c’era un’isola regno di Atlante, figlio del dio del mare Poseidone-, compaiono negli scritti di un autore greco, ma questa volta in accoppiamento con un’altra mitica località: Tartesso, la città o terra dei metalli, citata per ben ventun volte dalla Bibbia.

Probabilmente l’assonanza di Gadira con Gades, come un tempo era chiamata Cadice -città spagnola posta in prossimità dello stretto di Gibilterra ed affacciata sull’oceano Atlantico- aveva indotto qualche anno fa l’Università spagnola di Huelva, quella americana di Hartford ed uno stuolo stratosferico di studiosi di varie discipline, ad impegnare tempo e risorse a profusione per cercare le tracce di queste terre perdute in corrispondenza della pianura di Donana, a nord della stessa Cadice, nell’ambito di un vasto ed impegnativo programma, seguito passo dopo passo da National Geographic e ripetutamente diffuso e pubblicizzato in tutto il mondo sulle reti Sky .

E’ altrettanto probabile che l’interessamento del governo spagnolo per questa spedizione fosse dovuta alla convinzione che trovando Tartesso si sarebbe verosimilmente trovata Atlantide, con tutte le conseguenze mediatiche che tale circostanza avrebbe comportato per il turismo iberico.

Che poi la spedizione non abbia scovato niente è un altro conto, ma nel frattempo si è consolidata, nell’opinione mondiale, la convinzione che queste terre leggendarie fossero ubicate in un luogo misterioso della costa spagnola e il mistero, come noto, attrae quasi più della nutella. Gli spagnoli questa opportunità se la sono giocata senza porsi problemi di scientificità e non è un caso se a Cadice sono talmente convinti di essere i pronipoti dei tartessici, da intitolare  una via e anche un hotel ad Argantonio, il primo re di Tartesso di cui si abbia una menzione storica (anche se l’origine dell’’emporio tartessico risale probabilmente al XIII secolo a.C.) .

Tuttavia, per somma sfortuna della Spagna le “Colonne” non sono un elemento fisso, ma variabile dipendente dalle varie interpretazioni succedutesi nel tempo, e certo gli iberici non ne hanno gradito il trasferimento ai lati del Canale di Sicilia operato dallo scrittore Sergio Frau, peraltro con l’avvallo del nostro massimo archeologo Giovanni Lilliu. Quest’ultimo, nell’edizione del 2 Novembre 2002 della Nuova Sardegna, così scriveva :“Io sono d’accordo, nella parte archeologica, col giornalista Sergio Frau, nel collocare le colonne tra Capo Bon e Lilibeo o, se posso dirlo, tra la collina di Byrsa a Cartagine e l’isola di Mozia in Sicilia, avamposti strategici del mondo punico alla frontiera col mondo dei greci…”.

E sicuramente i nostri cugini spagnoli non sarebbero stati d’accordo neanche con Costantino Hofler, professore di Storia dell’Università di Praga, il quale nel lontano 1858 scriveva, nella sua “Storia Universale”, che “Malta e Sicilia si ponno considerare come le prime colonne d’Ercole della navigazione; furono quindi spinte fino a Sardegna e Africa; finalmente sino a Spagna e Africa”.

Ma ecco che pochi giorni fa, sulle pagine dell’Unione Sarda, compare un articolo in cui e il rabbino israeliano Gabriel Hagal , paleologo e filologo dell’Università cattolica di Parigi, nel presentare la nuova produzione di liquori di mirto e di limone di una nota cantina sarda, dal significativo nome “Tresòrs de Tarsis” (“Tesori di Tartesso”), dichiara testualmente che alcune citazioni bibliche parlano “della terra di Tarso, cioè della vostra Isola”.

Come, professore, ma Tartesso non era in Spagna?

Da dove derivi questa convinzione dello studioso non possiamo saperlo ma solo ipotizzarlo. Forse per Hagal sono risultate convincenti le letture di Frau e di Hofler, e magari le affermazioni di Lilliu, ma è altrettanto probabile, considerato il suo livello culturale, che egli abbia letto anche altri autori e si sia comunque documentato a fondo, magari considerando che la posizione della Sardegna, ricca di metalli, al centro del Mediterraneo occidentale, con tanti porti ed approdi al riparo dai venti dominanti, rappresentava sicuramente la terra ideale per “impiantarvi” un emporio metallifero importante.

O magari avrà letto anche Ovidio, che nelle sue Metamorfosi scriveva della ninfa Canente, che aveva posto fine ai suoi giorni sparendo nelle acque del Tevere dopo aver scrutato invano per giorni l’orizzonte da cui sperava giungesse il suo sposo, con gli occhi rivolti alle “spiagge di Tartesso” dove “si spegneva il tramonto del sole”.

Il nostro rabbino avrà certamente ritenuto probabile che Ovidio, citando il sole che tramontava di fronte alle foci del Tevere, si riferisse alla prospiciente costa sarda e non a quella atlantica della Spagna ubicata, come diciamo noi “in su corru ‘e sa furca”. Le sue conoscenze storico-mitologiche lo avranno inoltre indotto a rivedere il “parentado” di Gerione, primo sovrano mitologico di Tartesso, per scoprire che la figlia di questo re, che di nome faceva Erithia, dopo essersi unita al dio Hermes, aveva generato Norace, il presunto fondatore di Nora. Si, proprio Nora, dove fu rinvenuta la famosa stele in cui pare sia inciso il nome di Tartesso. A parte osservare che il nonno di Gerione si racconta fosse un tale Forco (Phorkys, Porcu ?) dio del mare e signore delle isole di Sardegna e Corsica. Ma sapendo che a Gerione sarebbero successi altri due sovrani, denominati Gargoris ed Habis, entrambi legati all’agricoltura e all’apicultura, niente di più probabile che qualche amico sardo (magari proveniente dalla stessa cantina che insieme ai “Tresòrs de Tarsis” produce anche un ottimo liquore di mirto al miele), abbia raccontato ad Hagal che nella nostra isola esiste, in territorio di Meana Sardo, un sito di grande pregio ambientale chiamato “Ortuabis”. Sito tra l’altro conosciuto proprio per l’ottima qualità del miele che vi si produce. Gargoris, dal canto suo, era re dei Cureti, i guerrieri descritti negli “Inni orfici” come una sorta di precursori del ballo tondo e che, come tra l’altro ricorda il grecista e latinista Luca Antonelli (“Da Tarsis a Tartesso”), erano “legati alla produzione di armi di bronzo”. Certo, sono tutti spunti che dovrebbero essere recepiti con la dovuta cautela perché stiamo parlando di sovrani mitologici, ma è altrettanto vero, come scriveva il celebre archeologo Louis Godard, che “ le vecchie leggende affondano le loro radici nella Storia  ed è certo che alla base di qualunque mito narrato dagli Antichi vi è una verità storica che la critica moderna deve tentare di ritrovare e di spiegare”.

Ho anche immaginato che il nostro amico israeliano, rileggendo il passo di pseudo Apollodoro citato nelle premesse, abbia ritenuto poco credibile che per raggiungere Tartesso/Cadice, dopo aver superato le presunte Colonne poste a guardia dello stretto di Gibilterra, il forzuto Ercole avesse avuto bisogno di una barca (il calice d’oro) su cui traversare l’oceano. Ma quale barca? Superata Gibilterra, Cadice è ad un tiro di schioppo e il nostro eroe ci sarebbe arrivato via terra con due balzi, senza dover traversare alcun oceano. Diversamente, se si propende per la collocazione delle Colonne a presidio del Canale di Sicilia, arrivare in Sardegna a piedi sarebbe stato sicuramente problematico, anche per un semidio come Ercole.

Può anche darsi che il professor Hagal sia rimasto meravigliato nell’apprendere che il tartessico  non risulta imparentato con il basco, l’iberico e il lusitano e presenta invece analogie con le lingue anatoliche e soprattutto con l’etrusco. E a questo proposito gli sarà tornato in mente quanto affermato dal geografo greco Strabone, che nel primo secolo a.C. scriveva, in riferimento ai primi re di Roma: “Reges soliti sunt esse Etruscorum, qui Sardi appellantur…(I re degli etruschi sogliono essere coloro che vengono chiamati sardi…”).

Salvo che fosse anche al corrente di quanto scritto da Avieno  nella sua “Ora Maritima” in merito all’esistenza, in area tartessica, di un Argentarius Mons e della presenza della popolazione pastorale dei Berybraces, poco oltre il fiume Tyrius.

Non potrebbe essere, direbbe sommessamente qualcuno, che magari i pastori Berybraces (o Bebrici) siano identificabili con i Barbaricini, che l’Argentarius mons abbia qualche attinenza con il Gennargentu e che il fiume Tyrius, dai più assimilato al Guadalquivir, possa invece coincidere con il nostro Tirso?

Ma non vogliamo essere tacciati di sardo-centrismo, per cui lasciamo ai posteri “l’ardua sentenza”.