di Nicola Manca
Qualche giorno fa, ho letto di un signore che negli anni 70 raccontava le sue vicende puerili nel piazzale dove soleva trascorrere interi pomeriggi. Le sue parole corrispondevano esattamente a quanto, vent’anni più tardi, ho vissuto io. E probabilmente a quanto 20 anni prima avranno vissuto i genitori del signore. Insomma, poco era cambiato e, traslando sul piano metaforico questa storia che andrò a riportare, passati quattro lustri dalla mia esperienza, tutto è ancora – più o meno – così: chi possiede il pallone è colui che fa la differenza. I bambini del rione trovavano sempre uno spiazzo dove giocare e chi scendeva prima degli altri doveva accontentarsi di farlo con la fantasia. Poi arrivava lui, col pallone sotto braccio nuovo di zecca e incominciava la festa. Era un momento magico, di condivisione nel quale il ludos, riempiva gli animi e non ti faceva pensare ai problemi della vita (che al tempo, per lo più, erano i compiti non fatti o le interrogazioni). Tutta questa spensieratezza finiva quando il proprietario della palla pronunciava le fatidiche parole “ragazzi, io devo andare”. E mestamente si incamminava con sotto braccio il pallone che tanto lo differenziava dagli altri, lasciando i suoi compagni in un clima di sgomento. Non era importante se tutti gli altri volessero continuare a giocare: lui doveva andare. E guai a dimenticare il pallone per qualche motivo. Sarebbe sceso di corsa, ancora sporco di terra, per riprenderlo subito e impedire che senza la sua supervisione il gioco riprendesse. Ora che non mi capita più di giocare in questo modo ( che ricordo con piacere), capisco che il momento più nobile di questa storia era la condivisione e non il fatto di apparire diverso, “superiore”, per il solo fatto di possedere qualcosa con cui gli altri bambini potessero vivere i loro momenti spensierati. Perché un giorno potrebbe capitare di dimenticare il pallone che ci rendeva tanto importanti o un altro bambino potrebbe portarne uno più bello e nuovo e nessuno vorrebbe essere escluso dal gioco perché in passato si era comportato avidamente. Noi, dentro il campetto in terra battuta di Nurnet, ci proviamo a prestare i palloni a tutti coloro che vogliano giocare con noi. Non ne sappiamo sempre la provenienza, qualcuno l’ha dimenticato dentro un cespuglio e noi l’abbiamo trovato, qualche altro ci ha detto che lo avrebbe prestato e noi diciamo, giustamente, che il pallone è suo. Qualche altra volta, ci dimentichiamo o confondiamo il nome del proprietario o la marca del pallone perché il fine non è la rivendicazione di chi sia l’eroe di giornata che faccia giocare tutti, ma la condivisione e la gioia nel dare due calci tutti insieme. Ma è proprio questo il caso in cui, velocemente, il proprietario scende da casa e va a recuperare il proprio oggetto: il pallone è mio e ci gioco io. Non importa, ce ne sono molti altri e la piazza è abbastanza grande per tutti. E no, non escluderemo nessuno quando, nonostante il comportamento, si sarà dimenticato il suo pallone e il contrappasso sarebbe lasciarlo seduto su un muretto a guardare tutti divertirsi. Passa il tempo, nulla cambia. Solo che adesso ci sono più palloni e più spazio per tutti. “La felicità è reale solo quando è condivisa” [Christopher McCandless]