ci è stato donato in omaggio dall’affezionato lettore e appassionato di archeologia sarda Sandro Alex Ghiani. Lo ringraziamo pubblicamente.
Da una prima scorsa, il libro appare un documento eccezionale.
Ne faremo un sunto che pubblicheremo a puntate per i nostri lettori. Oggi riportiamo la premessa, nella quale l’autore evidenzia l’amarezza di chi ha vissuto la vicenda, direttamente e indirettamente.
PREMESSA
“Era da poco trascorsa l’una del mattino del 24 giugno 1968 quando tre speleologi che esploravano la grotta Pirosu, a Su Benatzu, nelle colline di Santadi, illuminarono una sala il cui pavimento era cosparso di cenere. Volsero lo sguardo verso uno strano luccichio e videro affiorare dal buio una distesa di piccole tazze e poi, accatastati uno sull’altro, centinaia di vasi e lucerne. Era un tempio nuragico che riemergeva dalla notte dei tempi.
Nella sala vi erano tre grandi cumuli di ceramiche e, attorno a una colonna stalagmitica spezzata, un centinaio di oggetti di rame, bronzo e anche d’oro.
Poco distante, sotto la cenere del focolare sacro, un’urna conteneva ossa combuste di animali; sul pavimento erano ancora visibili i segni lasciati tremila anni prima dal passaggio dei fedeli.
Comincia così la storia di una delle più straordinarie scoperte avvenute in Sardegna; mai, prima di allora, era stato trovato un santuario ipogeo assolutamente integro dove i doni depositati dai fedeli, le vaschette d’acqua adibite al culto e il cumulo di cenere del fuoco sacro parlavano del popolo nuragico nel tempo in cui la sua civiltà aveva raggiunto il massimo splendore.
Sarebbe stato naturale attendersi che un evento eccezionale come quello fornisse materiale di studio agli archeologi e favorisse un ritorno economico nel territorio grazie alla notorietà acquistata attraverso i libri dedicati all’argomento, le guide illustrate, gli articoli dei giornali, i programmi trasmessi in tv, le pagine nel web.
A cinquant’anni dalla scoperta dobbiamo prendere atto che ben poco di questo è accaduto. I pochi lavori specialistici si limitano alla descrizione e l’affascinante storia di una grotta che ha ospitato l’uomo del Neolitico per più di duemila anni e ancora da scrivere.
Nelle vetrine delle librerie sono comparse molto monografie dedicate ai siti archeologici della Sardegna ma nessun editore ha finora proposto una pubblicazione del santuario ipogeo di Su Benatzu. Non meglio nel web: Nurnet ha censito e inserito nel database disponibile su internet migliaia di siti sardi di interesse archeologico. Ci sono quasi tutti, dalla reggia di Barumini ai ruderi di piccoli nuraghi nascosti tra le rocce. La grotta santuario di Su Benatzu, priva di una scheda illustrativa, è solo un punto segnato sulla carta.
E’ vero. Qualcosa è stato fatto: a Santadi è stato aperto un piccolo (e pregevole) museo, ma è uno dei tanti distribuiti nella provincia e ci vuole ben altro per attrarre turisti forestieri e sollevare l’interesse dei visitatori nostrani. Persino il nome degli scopritori è stato messo in dubbio e anche di loro si è quasi persa memoria.
La storia recente del santuario ipogeo ha visto poco attivismo e molta sciatteria e non si può certo dire che ciò sia avvenuto per colpa di un destino avverso. Come avviene sovente nella vita con le vincite fortunate, la scoperta di un tesoro ha fatto emergere rivalità, ha sollevato invidie, ha dato corso alle maldicenze. Quell’estate del 1968 l’Istituto di Antropologia dell’Università e la Soprintendenza archeologica si contesero i reperti, ignorando le ragioni della scienza che avrebbero consigliato una proficua collaborazione. Il tempio venne smantellato, ceramiche e bronzi finirono in tutta fretta a Cagliari e nella grotta ritorno il silenzia (tristezza, n.d.r.).
Immagine di gruppo – “Siamo nell’estate del 1968 all’interno della grotta di Su Benatzu, a breve distanza dalla sala dove pochi giorni prima Antonio Assorgia, Franco Todde e Sergio Puddu avevano scoperto il tempio nuragico. Dei quattro compagni degli scopritori, ricordo il nome di uno solo, il primo a sinistra, Pallino Urracci, il cui sorriso e la cui allegra compagnia ci mancano da quarant’anni. Devo questa foto a Sandro Ghiani, nipote di una delle figure di spicco di quell’associazione, il maestro Ghiani.”