Giovanni Ugas
PRESENTAZIONE DEL LIBRO DI Francesco Casula
Controstoria della Sardegna dalla civiltà nuragica al dominio spagnolo
Il Libro
Nel libro Controstoria della Sardegna dalla civiltà nuragica al dominio spagnolo, un testo corposo di 339 pagine, edito recentemente nel 2024 dalla Grafica del Parteolla, Francesco Casula tratta la complessa e articolata storia della Sardegna, materia tutt’altro che semplice da affrontare e raccontare perché richiede una conoscenza enciclopedica e infatti generalmente l’intera storia dell’isola è oggetto di trattazione non di un solo studioso ma da parte di vari specialisti dei singoli periodi. Dunque oltre che colto, come dimostrano i tanti libri che ha scritto, Francesco è anche molto coraggioso e la sua opera offre un percorso narrativo lineare proprio perché appresenta il punto di vista di una sola persona.
Il titolo Controstoria della Sardegna è tutto un programma ed evidenzia che l’obiettivo di Francesco Casula è quello di scoprire la vera storia confutando quella ingannevole che talora emerge dalle antiche notizie letterarie e dagli studi moderni. La storia del passato della nostra isola, afferma Francesco, è raccontata per un lungo periodo da scrittori non sardi, adattata per lo più alle esigenze dei vari conquistatori e perciò finalizzata a esaltare il valore dei loro guerrieri, la loro superiore civiltà e il loro buon governo e per contro a denigrare i Sardi. Dai Romani agli Spagnoli è proposto dunque un unico scenario in cui gli abitanti dell’isola appaiono incivili e perfino inetti.
La falsa storia deriva principalmente dal fatto che per l’antichità non esistono documenti scritti dai Sardi. Solo al tempo dei Giudicati cominciano a comparire testi scritti da Sardi, per giunta in lingua sarda, ma non trattano vicende storiche. Si comincia a scrivere in latino della storia e della geografia dell’isola, solo nella metà del ‘500 con i primi umanisti sardi, Sigismondo Arquer, autore dell’opera Sardiniae brevis historia et descriptio e appresso Francesco Fara nelle opere De Rebus Sardois e Chorographia Sardiniae. Per quanto attiene la storia, essi trattano in modo ancora acritico le notizie letterarie greche e romane e non poteva essere altrimenti perché l’archeologia nascerà solo tre secoli più tardi, e tuttavia l’Arquer, che fu il primo martire della Sardegna moderna, come mette in evidenza in un altro saggio Francesco Casula, ebbe anche il merito di essere stato il primo studioso a scrivere dell’aspetto e della funzione dei nuraghi, ritenuti fortezze.
Con una prosa fluida e accessibile a tutti, che rispecchia il suo status di docente di lungo corso, Francesco Casula getta uno sguardo sui tanti periodi della storia sarda e ne approfondisce i temi più rilevanti con un intento antologico, attraverso la selezione di brani letterari che lui chiama pimpirias de istoria, fiammelle di storia. Nella sua ricerca della vera storia, emerge un percorso, direi celebrativo, dei personaggi che hanno inseguito il sogno e la speranza della libertà dell’isola e talora dell’unità nazionale,
Francesco si sofferma particolarmente sull’età dei Giudicati, il solo periodo dopo l’età nuragica, all’incirca tra il 900 e il 1300 dopo Cristo, in cui i Sardi, pur divisi in quattro regni, furono liberi e in una fase di progressiva prosperità. Evidenzia il ruolo dei Giudicati non solo nella difesa della Sardegna e dell’Italia dalle mire di conquista degli Arabi, ma anche per la crescita dei valori culturali, tra i quali emerge la lingua sarda scritta, proposta inizialmente nei secoli XI-XIII dai condaghes, cioè le rendicontazioni delle attività di monasteri e abbazie, e appresso nel sec. XIV dalla Carta de Logu, che raccoglie tre importantissimi testi di diritto civile e penale voluti da Mariano IV ed Eleonora d’Arborea.
Del periodo giudicale, Francesco rileva le importanti testimonianze dell’architettura sacra e lo sviluppo delle attività economiche e dei commerci favorito anche dalla politica di espansione della chiesa romana e dalle relazioni con i comuni marinari di Pisa e Genova, anche se le ambizioni di queste città, con gli innesti delle loro ricche famiglie nelle case regnanti giudicali e soprattutto con i loro conflitti, contribuirono decisamente alla decadenza e alla fine dei Giudicati, agevolando con le loro divisioni le iniziative aragonesi per impadronirsi dell’isola
Sono tante le ragioni per apprezzare il lavoro di Francesco Casula, ma non entrerò nel merito dei contenuti delle vicende medioevali e moderne da lui considerate e porterò l’attenzione soltanto su alcuni argomenti e personaggi più antichi.
Le prime guerre di Roma contro i Sardi, Ampsicora
Riguardo alle guerre di Roma contro i Sardi, Francesco rimarca che il punto di vista degli autori romani non è attendibile. Gran parte di ciò che sappiamo sui conflitti tra Roma e i Sardi alla fine del III e agli inizi del II secolo a.C. risale a Tito Livio che scrive due secoli dopo gli eventi, anche se poteva attingere a fonti più antiche. Lo storico romano subisce l’influsso del pensiero di Cicerone che emerge nel processo per concussione intentato nel 54 a.C. dai Sardi contro il propretore Marco Emilio Scauro. Cicerone, come Livio legato alla fazione senatoriale di Pompeo contrapposta a quella di Cesare, nel difendeva Scauro afferma che i Sardi non avevano coraggio ed erano addirittura rozzi, vestiti di pelli e simili ai nordafricani, ma l‘acredine di Tito Livio nei confronti dei Sardi scaturisce soprattutto dal fatto che essi sostennero Cesare nella guerra civile contro Pompeo tra i 49 e il 45 a.C. e infatti poco dopo Carales, cioè Cagliari, fu nominata da Cesare municipium, dunque città amica dei romani, e ad un tempo i cittadini di Turris Libysonis, l’attuale Porto Torres furono considerati coloni romani; all’incirca nello stesso periodo rientra la dedica della moneta in bronzo, coniata dal propretore Atius Balbus, al Sardus Pater omologato al Mars Pater romano con la lancia.
Tito Livio non è credibile quando scrive che Roma rivendicò il possesso della Sardegna in conseguenza delle sue vittorie su Cartagine, e infatti lo storico greco Polibio (I, 79) aveva già raccontato diversamente, agli inizi del II sec. a.C., che a seguito della rivolta dei mercenari e delle province nordafricane contro Cartagine sconfitta da Roma nel 241, i Sardi colsero l’occasione per ribellarsi e nel 240 raggiunsero la libertà dopo aver cacciato via anche i mercenari dei Cartaginesi che si trovavano nell’isola. Polibio aggiunge che nel 238, Roma sostenne falsamente che la Sardegna era ancora una colonia cartaginese e appresso con vari altri pretesti mosse contro i Sardi una lunga guerra iniziata nel 235 quando i Romani condotti dai consoli Tito Manlio Torquato e Caio Attilio Bulco attaccarono l’isola e la invasero. Da allora fu un susseguirsi di scontri e come racconta Zonara (VIII) più volte i Romani dovettero essere sconfitti, attribuivano le cause delle perdite alle pestilenze; talora venivano assaliti dai Sardi per recuperare il bottino acquisito nei saccheggi tra la popolazione civile.
Solo dopo otto anni di guerre, nel 227 la Sardegna veniva dichiarata provincia romana e Carales fu scelta come sede. Tuttavia, quando dieci anni dopo, nel 217 e 216 Annibale con l’esercito di Cartagine invase l’Italia e mise sotto assedio l’Italia, le popolazioni sarde al comando di Ampsicora si ribellarono ai Romani.
Tito Livio (XXIII 40-41) scrive che nel 215 a.C., Roma intervenne nell’isola con un poderoso esercito di 22 mila soldati di fanteria e 1200 cavalieri, comandato ancora da Tito Manlio Torquato, Partito da Carales, Manlio pose il campo in territorio nemico, non lontano dagli accampamenti dell’esercito sardo. Livio racconta che, mentre Ampsicora si reca dai Sardi Pelliti, vale a dire i Balari, per chiedere rinforzi, imprudentemente il figlio Hostus (Iosto) muove all’attacco senza attendere il ritorno del padre, ma forse ingiustamente Livio accusa Hostus perché era interesse dell’esercito romano condurre lo scontro prima che arrivassero i rinforzi alle truppe sarde. Nella battaglia i Sardi lasciano sul campo 3000 soldati, mentre 800 furono fatti prigionieri. Iosto con la parte restante del suo esercito si dirige verso Cornus, il centro del Montiferru presso Cuglieri, dove si trovava Amsicora e dove erano convenute anche le forze dei Balari.
In quali zone della Sardegna abitavano gli Iliesi e i Balari? Nella sua Storia Universale, Diodoro Siculo afferma che al tempo dei Re Tespiadi, dunque dei nuraghi, gli Iliesi risiedevano nelle Iolaia pedia cioè nelle piane dei Campidani di Cagliari e Oristano. Stando ad altre notizie letterarie il corso d’acqua del fiume Tirso impediva agli Iliesi di scontrarsi con i Balari. Un confine tra i due popoli in età romana era fissato dall’iscrizione sull’architrave del Nurac Sessar (ora di Aidu Entos) in agro di Bortigali presso la catena montuosa del Marghine che già al tempo dei nuraghi fungeva da margine, da limite territoriale.
Pertanto, gli Iliesi erano insediati nella Sardegna centro-meridionale a Sud del Marghine mentre i Balari, cioè gli Iberi di Pausania, popolavano la Nurra e il Logudoro. Inoltre, nell’isola vi erano i Corsi che dimoravano a Nord-Est in Gallura, come evidenzia un altro confine nel territorio di Berchidda tra i Balari e i Corsi, come oggi al limite tra i Galluresi e i Logudoresi.
Ritornando al racconto di Livio sulla battaglia, Manlio è costretto a rientrare a Carales perché nel frattempo giunge nell’isola un contingente cartaginese al seguito di Asdrubale detto Calvo che si aggrega all’esercito sardo guidato da Amsicora. L’esercito sardo- cartaginese sarebbe giunto a Carales, cioè la meta finale della riconquista, se le truppe romane di Manlio non gli fossero andate incontro e ne scaturì una battaglia cruenta che, a giudicare anche dalla toponomastica, avvenne nelle campagne di Sanluri o nei pressi, al limite del Campidano di Cagliari.
Tito Livio scrive che si combatté per 4 ore e che l’esito dello scontro fu a lungo incerto per il valore dei Cartaginesi, poiché di solito i Sardi venivano facilmente sconfitti; infine anche i Cartaginesi furono sbaragliati, mentre tutt’intorno i Sardi venivano massacrati o si davano alla fuga. Fu più una strage che una battaglia; furono uccisi dodicimila Sardi e Cartaginesi e quasi tremila settecento furono presi prigionieri insieme a 27 insegne militari. Racconta ancora Tito Livio che resero illustre quella battaglia, la cattura del comandante Asdrubale, e dei nobili cartaginesi Annone e Magone parente di Annibale. Cadde sul campo anche Hostus figlio di Ampsicora e questi “mentre fuggiva con pochi cavalieri, si uccise quando ebbe notizia del crollo della patria e della morte del figlio”. Cornus, anche allora città di rifugio, fu assalita da Manlio e dopo alcuni giorni cadde nelle mani dei Romani.
Tito Livio si guarda bene dal fornire le cifre delle perdite romane e racconta che i Sardi si arresero facilmente al contrario dei loro alleati Cartaginesi. Per svilire i Sardi arriva persino a esaltare i Cartaginesi, ovviamente perché al suo tempo Cartagine era una città rifondata da Roma. Tutto ciò in contrasto col fatto che dodicimila uomini erano caduti in battaglia e che in maggior numero dovevano essere proprio sardi, perché mentre i capi dei Cartaginesi palesemente si arresero, Iosto cadde in battaglia con i suoi soldati. Nell’analisi della battaglia, Tito Livio non tiene conto del fatto che per tre secoli i Sardi avevano subito la dominazione punica e dunque dovevano essere male armati e, soprattutto, privi di consistenti reparti di cavalleria e di una flotta; non a caso per sperare nella vittoria essi dovettero cercare l’alleanza dei Cartaginesi.
Tra i Sardi un posto di rilievo è assegnato dagli storici romani al loro capo Amsicora che, stando a Tito Livio superava di gran lunga i suoi concittadini per autorità e ricchezza. Chi era Ampsicora? Lo studioso di Storia romana Piero Meloni sosteneva che era un sardo punico, partendo dal presupposto che egli era ricco e chiamò i Cartaginesi a combattere contro Roma, dunque era almeno un collaborazionista o un sottoposto ai Cartaginesi, mentre Ettore Pais lo considerava addirittura un Cartaginese. No, scrive Francesco Casula, Amsicora era di antica origine sarda. Allineandosi con quanto sosteneva Raimondo Carta Raspi, Francesco afferma, a ragione, che è indiscutibile l’autorità che Amsicora riveste presso le popolazioni indigene, cioè presso gli Iliesi e i Balari, e infatti Amsicora era un dux un comandante militare e politico, ben distinto da Asdrubale che guidava le forze alleate cartaginesi. Amsicora, scrive Francesco, poteva essere un giudice, un magistrato eletto dagli organismi senatoriali delle comunità sarde ma, il fatto che in sua assenza il capo dell’esercito fosse il figlio Iosto, può implicare o l’ereditarietà familiare nella carica di giudice o una istituzione monarchica conservatasi tra i Sardi dalla fine del secolo VIII a.C. Infatti allora non solo furono abbattute le statue di Monte Prama ma furono distrutte anche le sale del consiglio degli anziani, forse da famiglie potenti che miravano al potere regio in sintonia con quanto avveniva allora in Etruria e nel Lazio con la fondazione di Roma regia.
In effetti, Amsicora non era né un cartaginese né un sardo punico perché il suo esercito muove da aree interne dell’isola, e soprattutto perché Silio Italico (XII, 344) nel I sec. d.C. scrive che Amsicora era un Ilieo, cioè un Iliese. Per Silio Italico gli Ilienses provenivano in origine da Ilio, cioè da Troia, come i Romani, e richiamando questa comune origine, diversamente da Tito Livio e da Cicerone, questo storico promuove il buon rapporto di Roma con i Sardi.
La sconfitta dei Sardi al tempo di Ampsicora consentì un’ulteriore penetrazione romana all’interno dell’isola, e ciononostante 40 anni dopo, nel 177 a.C., i Sardi tentarono di nuovo di liberarsi dalle catene di Roma e invasero le terre già soggette a Roma a parte le città. Sempre Tito Livio (XLI,12, 4/6) scrive che allora il console romano Tiberio Sempronio Gracco condusse le sue due legioni con 10.400 fanti e 300 cavalieri nelle terre degli Iliesi sostenuti dai Balari e fece una strage: i morti furono ben 12.000. È palese che i Sardi, se cadevano così tanti, non si arrendevano e non fuggivano facilmente come sosteneva Livio. Nel trionfo di Gracco è registrata la cifra spaventosa di 80 mila persone tra morti e feriti, e potrebbe non essere un’esagerazione perché Gracco deve aver fatto molti prigionieri tra la popolazione civile che sostenne gli insorti.
Contrariamente a quanto spesso si dice, allora la Sardegna non era affatto poco popolata, perché grazie alle ricerche archeologiche sappiamo che alla fine del sec. IV a.C., molti villaggi delle aree agricole, tra cui Monte Prama, Su Mulinu, e Su Nuraxi, furono ripopolati dai Sardi, verosimilmente dopo accordi con i Cartaginesi, oramai impegnati in una difficile guerra con Roma. Infatti, già in precedenza alla fine del sec. VI a.C., gli Iliesi abbandonate le pianure coltivate a frutteti e vigneti, si rifugiarono nelle aree dell’interno, e divennero, come afferma Strabone nel I secolo a.C., Diaghesbei, termine di incerto significato, forse “montanari” se è in relazione col vocabolo punico gebel “monte”.
Diversamente da Tito Livio, attingendo ad altre fonti, Annio Floro (I, 22, 35), poeta di origine africana vissuto tra il I e il II sec. d.C., loda il coraggio e la fierezza dei Sardi scrivendo che quando Gracco condusse il suo esercito in Sardegna “a questa non giovarono né la fierezza delle sue popolazioni né l’ambiente straordinariamente aspro dei Monti Insani. Gracco si accanì contro le città sarde e contro la capitale Carales per poter domare quella gente indifferente alla morte per il suolo patrio”. È palese che anche allora, gli Iliesi e i Balari non avevano paura di lottare e di sacrificarsi; per questo ci fu un massacro. Stando ad Aurelio Vittore (57, 2) allora, nacque il detto Sardi venales, cioè Sardi da vendere all’asta “a vile prezzo” come schiavi.
La lotta resistenziale dei Sardi I popoli sardi Barbaricini
L’attenzione di Francesco Casula è attratta particolarmente dalle vicende dei Barbaricini. Egli si chiede per quanto tempo essi restarono liberi ed è propenso a ritenere che sia un mito da sfatare l’idea che i Romani non abbiano occupato la Barbagia. Il tema è interessante e vale la pena soffermarsi. Intorno al 60 a.C., il già citato Diodoro, storico greco di Sicilia, vanta i Sardi Iolei o Iliesi perché furono capaci di resistere e opporsi ai Romani e con sentimento di simpatia assegna alla forte e coraggiosa popolazione sarda un’origine greca e la fa discendere dagli Eraclidi di Tespi in Beozia, condotti nell’isola da Iolao, eroe tebano attribuito a circa il 1300 a.C. e inoltre attribuisce al massimo artefice greco Dedalo l’antica meravigliosa architettura che oggi diciamo nuragica. Diodoro scrive che i Sardi, opponendosi con vigore ai Romani, conservarono la libertà nelle loro aree montane, sino al suo tempo, dunque sino alla prima metà del I sec. a.C., ma occorre chiedersi per quanto tempo gli Iliesi mantennero in seguito la libertà nelle zone interne dell’isola resistendo a Roma signora del Mediterraneo tra il III sec. a.C. e il V secolo d.C. I Romani chiamarono Barbaria la zona in cui si rifugiarono gli Iliesi e Barbaricini i suoi abitanti perché parlavano una lingua diversa dalla loro.
Francesco Casula propende a ritenere che alla fine della repubblica nel tardo I sec. a.C., i Romani fossero penetrati da per tutto nelle Barbagie e che di conseguenza vi siano rimasti sino alla caduta del loro impero, cioè sino al sec. V d.C., quando l’isola fu invasa dai Vandali. A questo pensiero inducono sia i ritrovamenti di manufatti romani di fine repubblica e di inizio età imperiale a Sirilò di Orgosolo, Sant’Efis di Orune e in altri siti dell’interno come Masilò, Norguiddo e nuraghe Dronoro di Fonni, sia la presenza di una mansio, cioè di una stazione romana, nel sito di Soròvile a Fonni, l’antica Soràbile, distrutta nel V sec. al tempo dell’arrivo dei Vandali. Questo presidio si trova sulla strada che da Carales conduceva a Ulbia, nel tratto tra Biora, abitato romano nell’agro di Serri, e Caput Tirsi cioè le sorgenti del Tirso in agro di Buddusò. Su questi aspetti hanno portato la loro attenzione in particolare con la consueta dottrina Raimondo Zucca e Attilio Mastino. Tuttavia, la questione non è affatto conclusa e merita di essere ulteriormente approfondita.
Innanzitutto i manufatti di età romana, così come i materiali punici e greci trovati nelle zone interne, in particolare a Sirilò di Orgosolo, non provano che i Cartaginesi e i Romani occuparono tali aree ma solo che le Barbagie vennero a contatto con essi attraverso i commerci. Diverso peso ha la strada che passava per Soràbile di Fonni, strada strategica per i Romani considerato che essa collegava cioè i due porti principali dell’isola Cagliari ad Olbia, fondamentali per i raccordi sul mare con Roma.
Tuttavia, la strada da Cagliari a Olbia, che nel suo lungo tratto meridionale corrisponde all’attuale strada statale 128, palesemente attraversava un tratto della Barbagia di Belvì e quella di Ollolai, ma lasciava fuori interamente a Est la Barbagia di Seulo a iniziare da Esterzili, e l’Ogliastra, oltre che una parte delle Barbagie di Belvì, di Ollolai e forse di Bitti.
Dunque, una gran parte del territorio dei Barbaricini si trovava a Est della strada Cagliari Olbia, e si può supporre fuori dai domini romani. Il fatto che gli abitanti di queste aree montane abbiano ricevuto dai Romani il nome di Barbaricini perché non parlavano la loro lingua, porta a pensare che gli abitanti della Barbaria abbiano mantenuto l’indipendenza non solo sino al tempo di Diodoro Siculo, anche nell’età romana imperiale favoriti dagli aspri rilievi dell’interno i Montes Insani, i Monti Furiosi che i Romani non potevano affrontare. Infatti, c’è da considerare che già nel I sec. a.C. Diodoro (V, 15), Siculo parla di imbarbarimento degli Iliesi, e ciò significa che fin d’allora cominciava a nascere il nome dei Barbaricini, nome che poi si affermò e si conservò anche in seguito, perché evidentemente i Sardi delle aree montane continuavano a essere liberi.
È da credere che Roma abbia rinunciato all’occupazione delle aree montane dell’isola, tenendo presidi nella Barbaria, perché controllava la gran parte dell’isola e il mantenimento di questi presidi sarebbe stato troppo dispendioso e anti economico e dunque si siano stabiliti accordi per una coesistenza pacifica, in un clima di maggiore tolleranza, verosimilmente quando, come si è detto, Carales divenne un municipio romano per volontà di Cesare e anche Turris Libysonis divenne colonia romana.
In ogni caso, non si deve pensare che i territori delle Barbagie e in generale delle aree interne dell’isola non comunicassero con le aree occupate da Roma perché se, a protezione dei confini delle aree controllate dai Romani, oltre che a Soràbile, risiedevano coloni come i Patulcenses Campani e gli abitanti dell’oppidum Augusti, l’odierna Austis, in prossimità a Ovest della strada Karales-Ulbia, in altre parti dell’isola dimoravano tante comunità autoctone. In questa direzione conduce anche il contenzioso sui confini territoriali tra i citati Patulcenses Campani, coloni romani, e gli autoctoni Galillenses di cui tratta l’ iscrizione su una lastra bronzea trovata in località Corte Lucetta (meglio Cort’e Lucetta) di Esterzili, risalente al tempo dell’imperatore Otone, al 69 d.C.
Il conflitto tra i Gallilenses e Patulcenses
Francesco Casula non si è fatto sfuggire questo tema importante dei confini territoriali tra i Patulcenses e i Galillenses. L’iscrizione di Esterzili, realizzata a cera persa perché potessero essere ricavate più copie, è importantissima per tanti versi. In primo luogo è rimarchevole il fatto che i confini tra i due popoli dovevano essere mantenuti, favorendo le richieste dei Patulcenses, come erano stati fissati in precedenza nel 115 a.C. dal console Marco Cecilio Metello che allora celebrò a Roma un suo trionfo in Sardegna dopo una campagna di guerra durata cinque anni. Nella sostanza i confini rimasero immutati a partire dalla fine del II secolo a.C. quando i coloni Patulcenses Campani erano insediati in vicinanza dei Gallilenses.
Purtroppo la tavola bronzea di Cort’e Lucetta non riporta le testimonianze dei Gallilenses né una eventuale versione anche nella loro lingua, come poteva essere nella precedente tavola bronzea del 115 a.C. Si è scritto molto riguardo all’ubicazione dei confini tra i Galillenses e i Patulcenses. Dove erano questi confini?
Tenendo presente che Francesco Fara citava la regio curatoriae Gerreis seu Galillae dicta, cioè la regione della Curatoria di Gerrei detta Galilla, e l’oppidum Pulli curatoriae Galilli nunc Gerrei dictae, cioè dell’abitato di Pauli della Curatoria di Galilla ora detta Gerrei, Giovanni Spano identificava la regione di Gallila con quella della curatoria medioevale di Gerrei che faceva capo all’abitato di Pauli Gerrei, ora San Nicolò Gerrei e anche in seguito vari studiosi hanno incluso i Gallilenses nel territorio del Gerrei. Tuttavia, già Piero Meloni dichiarava che “i Galillensi dovevano occupare un’area molto vasta, soprattutto a nord, fino al medio Flumendosa”, giustificando il rinvenimento della Tavola nelle campagne di Esterzili.
Fernando Pilia (Esterzili. Un paese e la sua memoria, Cagliari, 1986, pag. 37) riteneva che i Galillenses avevano sottratto la lastra con l’iscrizione ed erano insediati nell’agro di Esterzili. Infatti, il Pilia scriveva che la loro sede “era proprio sull’altopiano di Orborèdu, sulla piana ai piedi del massiccio del monte di Santa Vittoria, dove ancora oggi si possono osservare le rovine dell’abitato romano, chiamato dai locali Cea de Idda, ossia il pianoro della villa”. Nella sostanza il Pilia riteneva che i Galillenses fossero stanziati nella zona di Cort’e Lucetta dove era stata trovata la tavola con l’iscrizione romana. Non di meno anche l’amico Attilio Mastino, ritiene che i Galillenses si trovassero nel territorio di Esterzili e li mette in relazione con il fenomeno della transumanza nel Gerrei dove a suo avviso dimoravano Patulcenses.
In uno studio edito nel 1993, M. Pittau (La localizzazione dei Galillenses e dei Patulcenses, in AA.VV., La tavola di Esterzili. Il conflitto tra pastori e contadini nella Barbaria sarda, Convegno di studi, Esterzili 13 giugno 1992, a cura di Attilio Mastino, Sassari 1993), pur avendo affermato che i Patulcenses non dovevano essere localizzati con lontano dal Gallilenses, aveva negato la possibilità che i Patulcenses Campani si trovassero nel territorio di Esterzili perché a suo avviso “non era possibile l’esistenza di latifondi nella zona montuosa, fortemente accidentata, in cui si trova Esterzili”, e riteneva come Ettore Pais, che la sede dei Patulcenses fosse nell’odierna Trexenta.
Va detto che intorno al 1300 la regione della Galilla era nota a Dante Alighieri per le donne impudiche, perché verosimilmente mostravano il seno, rivelando caratteristiche di costume estranee agli occhi del suo amico Nino Visconti da Pisa, ma più tardi, tra il XIV e il XV secolo d.C. l’abitato di Gallilium (Galillium), noto in documenti medioevali studiati da Bachisio Raimondo Motzo, fu abbandonato è da presumere a seguito delle pestilenze. Scomparso nel tardo Medioevo l’abitato di Gallilium, il territorio della Galilla per ragioni ammnistrative dovette essere accorpato alla curatoria del Gerrei, prima nel Giudicato di Cagliari e poi sotto gli Aragonesi e gli Spagnoli. Infatti la Diocesi di Suelli comprendeva insieme al Gerrei, l’Ogliastra e la Barbagia di Seulo. Non di meno, in origine la Galilla doveva estendersi dal Gerrei al tratto meridionale della Barbagia di Seulo, e verosimilmente al tempo dell’occupazione romana dell’isola, un nucleo dei Galillenses, cioè di una tribù degli Ilienses, emigrando dalle piane e dalle colline della Sardegna sud-orientale, si rifugiò sui monti dell’attuale Barbagia. Dunque il territorio dei Galillenses poteva comprendere il Gerrei, ma non di meno poteva essere esteso nella Barbagia sino e oltre l’agro di Esterzili.
In effetti, non si ha ragione di credere che i Galillenses avessero sottratto ai Patulcenses la tavola con l’iscrizione trovata a Cort’e Lucetta. In primo luogo, una copia di questa iscrizione poteva trovarsi in origine anche tra gli stessi Galillenses, considerando che la lastra fu realizzata a cera persa da un originale che doveva trovarsi a Roma o a Carales e infatti nell’iscrizione c’è un riferimento a una copia del 115 a.C. che i Galillesi non potevano o non volevano mostrare, ma soprattutto va tenuto conto che nel sito di Cort’e Lucetta è ubicato un insediamento romano e ciò basta per affermare che la sede dei Patulcenses si trovava in territorio di Esterzili e non nel Gerrei, nella Trexenta o più a sud.
Per la localizzazione dei Patulcenses non si è tenuto conto né del fatto che del fatto che l’abitato romano di Cort’e Lucetta è localizzato non nella zona montana pastorale di Esterzili, cioè in prossimità del Monte Santa Vittoria che si eleva alla di quota 1212 metri, ma ben più a sud, a valle, alla quota di m 565-594 slm, sul pianoro di Cea de Idda, tra i corsi d’acqua del Flumendosa e del Flumineddu, in una zona a vocazione agricola, come quella che si può ipotizzare per i coloni Patulcenses. Ciò è evidente dal complesso dei toponimi della zona in prossimità del sito di Cort’e Lucetta: Crastu s’Orgiu (sporgenza di roccia dove si coltiva l’orzo), Su Venu (cioè il fieno), Is Pallargius (I pagliai), Axina rubia (uva rossa), Su Sarmentu (cioè i ceppi dell’uva), Taccu ‘e linu (Tacco del lino), Taccu sa Pruna (tacco della Prugna), Arcu Pirastru (valico del Pero selvatico), Arcu sa matta (valico della pianta), Orboredu (cioè Arboredu, Luogo alberato) e Boinargius (Bovari).
Era la zona agricola sottratta, almeno in parte, ai Gallilesi.
In breve, i Patulcenses Campani, avevano la loro sede a Cort’e Lucetta, in una zona a prevalente economia agricola. Nella sostanza essi erano i guardiani armati dei confini del territorio romano, insediati nei terreni agricoli che in precedenza dovevano appartenere ai Galillenses, una delle tribù degli Ilienses. L’iscrizione di Cort’e Lucetta registra non una semplice controversia tra due comunità in seno al territorio romano ma un contenzioso tra due entità sovrane perché i confini tra i Patulcenses e i Gallilenses vengono definiti non da organismi locali ma con l’intervento diretto del proconsole Lucio Elvio Agrippa, governatore della provincia della Sardegna, e dell’imperatore Otone.
I confini tra i Galillenses e i Patulcenses. Mont’e Nuxi di Esterzili centro dei Barbaricini e roccaforte di Ospitone ?
I confini tra la comunità sarda e quella dei coloni romani non potevano essere lontani da Cort’e Lucetta, sede dei Patulcenses, e i Gallilenses erano necessariamente stanziati a nord, a stretto contatto con loro. L’abitato di Galillium dev’essere persistito dall’età romana repubblicana (II sec. a.C.), se non dall’età nuragica, sino al Medioevo. Nella ricerca di Galillium, le indagini topografiche e archeologiche nell’agro di Esterzili portano a considerare decisamente la località di Monte Nuxi, a quota m 1118 sul versante Est del Monte Santa Vittoria (m 1212 di quota), non lontano dal ben noto sito di Cuccureddì col tempio nuragico di Domu de Orgìa o Urxìa/Orxìa
Con le investigazioni archeologiche condotte tra il 2008 e il 2010 nel sito di Mont’e Nuxi da Alessandra Saba sono stati messi in luce parzialmente i resti di un villaggio nuragico con alcune fonti sacre e di un più recente insediamento fortificato con una possente muraglia, già notata da Fernando Pilia e attribuita ad età nuragica.
Questa muraglia infatti risale al V-VI secolo d.C. poiché è connotata da un fregio a spina pesce come gli avanzi murari d’abitazione pertinenti ad età vandalica o bizantina evidenziati a Su Nuraxi di Barumini (sopra una preesistente abitazione ovale del Bronzo finale (zz) che fronteggia l’ingresso sopraelevato al bastione del nuraghe) e a Su Mulinu di Villanovafranca.
È da credere che la roccaforte di Monte Nuxi sia stata realizzata alla caduta del dominio romano nella metà del V secolo quando fu distrutta, verosimilmente dai Sardi la mansio romana di Soròvile in agro di Fonni oppure un poco più tardi quando a metà del sec. VI in Sardegna giunsero i Bizantini. In ogni caso è impensabile che i Vandali o i Bizantini abbiano costruito una loro fortezza a ben 1100 metri di altitudine in mezzo ai monti. A ragione di ciò l’insediamento di Mont’e Nuxi, ubicato a circa 8 km a Nord da Cort’e Lucetta, considerata la sua ubicazione, non solo può essere identificato con Galillium ma, essendo finora l’unico centro fortificato di età vandalica e/o bizantina nelle aree montane dell’isola, può essere stato anche la roccaforte di Ospitone, il dux dei Barbaricini al tempo del papa Gregorio Magno, rivale del dux bizantino Zabarda.
È lecito pensare che nella toponomastica sia rimasta qualche traccia del nome della regione o dell’abitato di Galillium, poiché il termine Galilla è registrato ancora nei documenti medioevali e appare ancora nel ‘500 col Fara, ma almeno in apparenza non c’è. Ho accarezzato l’idea che il toponimo Cuccureddì che indica il colle con il tempio nuragico di Domu de Orgia, prospiciente al sito di Monte Nuxi e ubicato più a valle sullo stesso sul tracciato viario, a quota m 976, fosse in qualche modo correlato sul piano etimologico con il nome di Galillium e di Ghelilla/Galilla, ma l’amico Giulio Paulis mi dice che Cuccureddì deriva da Cuccuru de illic (Colle di lì)
Ora, se l’insediamento di Cort’e Lucetta da cui proviene la lastra con l’iscrizione relativa ai confini tra i Galillenses e i Patulcenses Campani, è la sede dei coloni romani Patulcenses e Monte Nuxi è l’abitato dei Galillenses, i confini tra le due popolazioni dovevano trovarsi in territorio di Esterzili, all’interno dei circa otto chilometri che separano i due siti archeologici di Mont’e Nuxi e Cort’e Lucetta. Per cercare di definire più precisamente l’ubicazione di tali confini è indispensabile prendere in considerazione la topografia, la morfologia dei suoli e la toponomastica. Ora, poiché all’interno della fascia di questi otto chilometri, la morfologia dei suoli tende a modificarsi dopo i 750 metri di quota, con l’aumento deciso dell’altimetria, si può supporre che la linea del confine tra le due comunità si trovasse intorno ai 650/750 m di altitudine, quota che a giudicare dalla toponomastica, sembra segnare il limite tra la zona a vocazione agricola e quella pastorale.
Proprio in questa fascia intorno ai 650/750 m si riscontrano vari toponimi potenzialmente legati alle vicende dei Gallilesi e dei Patulcesi, come Masonassu, Scandelassus, Riu Su Mortogiu, Riu Bau Sinnias, Monte Santa Vittoria, Funtan’e Tremini e Bruncu Lacanas. F13 Non è il caso di soffermarsi sulle implicanze di carattere storico di tutti questi interessanti toponimi, perché ora è opportuno portare l’attenzione esclusivamente alla località di Bruncu Lacanas, cioè “Punta (lett. muso) dei Confini”, perché straordinariamente rilevante al fine dell’individuazione dei confini tra Galillenses e Patulcenses.
Mentre Funtan’ e Su Tremini segnala la pietra di confine, ubicata a Sud di Cort’e Lucetta, tra il limiti territoriali delle campagne di Esterzili, Escalaplano e Frazione amministrativa di Seui, il toponimo Bruncu Lacanas indica un sito ubicato a quota m 686, circa cento metri più in alto rispetto a Cort’e Lucetta, che non ha alcuna corrispondenza con i confini attuali dei paesi.
Il sito di Bruncu Lacanas ha tutte le caratteristiche per essere considerato un punto di riferimento nei confini tra i Galillesi e i Patulcesi, in origine segnalati da cippi terminali (lacanas è il plurale di un vocabolo prelatino), infissi sul terreno da entrambi i popoli. Sulla base della tavola bronzea di Cort’e Lucetta, possiamo dire che i confini tra i Galillenses e i Patulcenses furono stabiliti nel 115 a.C., cioè prima che Diodoro Siculo affermasse che gli Iliesi erano ancora liberi nelle montagne, e rimasero immutati ancora nel 69 d.C. e perciò non c’è motivo per pensare che tali confini fossero stati modificati successivamente.
La contesa con i Patulcenses evidenzia che i Gallilesi erano in rapporto con i Romani, ma non erano loro sudditi anche se li trattavano con sufficienza, perché, come detto, le loro questioni erano risolte da trattati bilaterali direttamente con Roma. Il nome di Barbaricini, attribuito agli Iliesi dai Romani dopo la loro diaspora dai Campidani è sintomatico del fatto che essi mantennero a lungo la loro lingua oltre che la loro libertà. Purtroppo gli Iliesi Barbaricini non ci hanno lasciato documenti scritti e anche la lastra di Corte Lucetta è registrata solo in latino e non anche in sardo iliese. Chissà se proprio in questa zona barbaricina verrà trovato in futuro qualche documento scritto in lingua iliese, sia pure in caratteri latini o bizantini.
La scarsa penetrazione romana nelle Barbagie e la persistenza della libertà dei Barbaricini sino al tempo dei Giudicati è rivelata anche dal fatto che gli abitanti attuali dell’Ogliastra e delle Barbagie hanno conservato gran parte dei geni delle popolazioni nuragiche, come evidenziano le analisi del DNA, e dal fatto che la toponomastica di queste zone è prevalentemente preromana.
In breve, la resistenza degli Iliesi diventati Barbaricini non è mai cessata. I Barbaricini si sono uniti alle altre comunità sarde solo al tempo dei Giudicati, quando anche queste erano libere.
La controstoria sui nuraghi
Nel suo libro, Francesco Casula affronta varie tematiche relative all’età nuragica e mi fa piacere che propenda a ritenere che gli Shardana siano i Sardi, come sostennero già i padri dell’archeologia isolana Giovanni Spano e Antonio Taramelli e come ho potuto accertare con un lungo e faticoso lavoro di ricerca.
L’idea che gli Shardana siano i Sardi contrasta con quanto sostengono ideologicamente sulla funzione dei nuraghi vari studiosi che non sono archeologi, oppure sono archeologi che non hanno la stessa formazione degli allievi della scuola di pensiero di Giovanni Lilliu ed Ercole Contu.
Ovviamente Francesco, rispettando il titolo del suo libro, è attratto da chi propone già una controstoria nuragica e come essi va in una direzione differente rispetto al tracciato degli studi percorso, sulla scia degli scavi archeologici, da Giovanni Spano, Antonio Taramelli, Giovanni Lilliu, Ercole Contu e dagli allievi di Lilliu e Contu.
Occorre ricordare innanzitutto che la controstoria nuragica è nata già con il grande studioso di Storia Romana Ettore Pais, il quale sostenne che i nuraghi erano allo stesso tempo fortezze, edifici abitativi, templi e sepolcri, in contrapposizione alle risultanze delle prime indagini archeologiche condotte tra la fine dell’ottocento e gli inizi del novecento. Infatti, il Taramelli, sulla scorta dei reperti provenienti dai vari strati degli scavi, affermava che i nuraghi erano nati come edifici fortificati e sedi di capi e solo in età punica e romana furono utilizzati per sepolture.
In tempi più recenti, partendo dal fatto che al tempo dei nuraghi erano utilizzate le sepolture collettive, cioè le Tombe di Giganti, gli studiosi della controstoria sostengono che nell’età del Bronzo i Sardi erano ugualitari, del tutto pacifici e inermi e di conseguenza i nuraghi erano templi, oppure sili, o abitazioni comuni, e affermano che non esistevano capi, né guerrieri e che addirittura non esistevano le armi, oppure che le armi erano solo votive, cioè non funzionali. Affermano, infine, che anche le statue dei guerrieri di bronzo e quelli di pietra di Monte Prama hanno esclusivamente una valenza simbolica, non legata alla guerra. Generalmente, l’obiettivo finale dei loro ragionamenti è quello di indurre a far credere che i Sardi non potevano essere il potente popolo guerriero e marinaro degli Shardana.
Questi studiosi non tengono in considerazione che l’usanza delle sepolture collettive deriva da precedenti costumi funerari eneolitici nei quali sono ben documentate le armi e le distinzioni sociali e rifiutano pregiudizialmente gli esiti degli scavi da cui si evince che i nuraghi nell’età del Bronzo Medio e Recente non erano templi, in primo luogo perché in essi non risultano mai altari, immagini, simboli e offerte sacre; infatti si trovano solo dopo la loro devastazione avvenuta intorno al 1000 a.C. Non si tiene conto del fatto che i nuraghi sono possenti edifici costruiti come torri e castelli,
diffusi a migliaia nel suo territorio all’interno e sulle coste,
con terrazzi, garitte all’ingresso, feritorie nelle torri,
che non si trovano mai nei templi a pozzo e a megaron, e vengono interpretate non come postazioni per arcieri, ma erroneamente come semplici finestrelle per dare luce e aria agli ambienti. Non si tiene conto ovviamente del fatto che le feritoie sono realizzate anche nelle cortine della cinta esterna,
dove le funzioni dell’illuminazione e dell’areazione non hanno alcun senso.
Questi studiosi eludono le varie fonti letterarie greche e latine quando tramandano che in età nuragica vi erano rapporti conflittuali tra le comunità sarde. Basti ricordare la notizia sui Balari e sugli Iliesi che non potevano scontrarsi tra loro perché impediti dalle acque del fiume Tirso. Eludono le notizie letterarie quando raccontano che gli abitanti dell’isola erano governati da re e mai riferiscono di popolazioni sarde egualitarie e pacifiche.
Vengono elusi persino i dati dell’archeologia relativi alle distruzioni avvenute nei nuraghi. Si possono fare tanti esempi ma per brevità mi limito a citare solo i dati degli scavi di Giovanni Lilliu a Barumini. Tra il 1150 e il 1100 a.C., la cinta turrita esterna del nuraghe di Su Nuraxi fu parzialmente distrutta e ricostruita
e nello stesso tempo il bastione quadrilobato fu rinforzato con un possente rifascio che portò all’obliterazione delle feritoie e dell’ingresso e così lo stesso ingresso fu trasferito dal piano terra a 7 metri di altezza e reso raggiungibile solo con una scala mobile.
Se il nuraghe di Su Nuraxi fosse stato un tempio non si capirebbe perché sia stato sottoposto a una prima distruzione seguita da una ristrutturazione con il trasferimento dell’ingresso a 7 metri d’altezza e più tardi abbia subito una seconda e definitiva distruzione e abbandono definitivo.
Infatti, intorno al 1000 a.C., i nuraghi, compreso quello di Barumini, furono sistematicamente decapitati, cioè privati dei terrazzi, essenziali per la funzione difensiva. Non si vorrà credere alle favolette da romanzo secondo cui i nuraghi furono distrutti da inauditi eventi catastrofici naturali? Nessun autore antico tramanda che la Sardegna subì nel passato un’immane catastrofe e invece Diodoro Siculo racconta che i re Tespiadi, cioè i capi tribali, furono cacciati via e si rifugiarono in Italia a seguito di una rivolta sociale condotta dagli aristoi, cioè dagli aristocratici locali; è evidente che nell’occasione furono abbattuti sistematicamente i terrazzi degli edifici fortificati fatti costruire dai capi, cioè i nuraghi, dove essi risiedevano. Non a caso si deve agli aristoi, cioè agli anziani dei villaggi, la costruzione e l’utilizzo per le loro riunioni collegiali delle sale rotonde
che Diodoro chiama dikastèria perché presiedute dai dikastes, cioè i magistrati chiamati giudici.
Alcuni studiosi sono giunti ad affermare che i nuraghi non potevano essere castelli difesi da guerrieri, perché vi si preparava e si consumava il cibo. Ma come si può pensare che coloro che dimoravano nei castelli, cioè in costruzioni fortificate difese da guerrieri, digiunassero tutto il giorno o mangiassero solo nei ristoranti. Altri affermano che i nuraghi erano sili per le scorte alimentari, ma perché costruirli come imponenti e massicce fortezze con tante finestrelle e terrazzi, spesso lontano dagli abitati?
Per quanto attiene all’assenza delle armi predicata dai sostenitori dell’assoluto pacifismo nuragico, occorre precisare che in Sardegna le armi sono documentate in abbondanza fin dal periodo eneolitico, nei corredi funerari delle culture di Monte Claro
e del Vaso Campaniforme ed esaltate nelle statue menhir del Sarcidano e del Mandrolisai.
Dopo la caduta dei nuraghi, nella produzione scultorea i Sardi sono raffigurati come guerrieri ovviamente con le armi e anche più tardi, quando affrontarono, i Cartaginesi e i Romani, dimostrarono di non essere affatto pacifici e inermi e di certo non offrirono l’altra guancia. Non a caso le fonti letterarie raccontano che i guerrieri sardi facevano uso della machaira, cioè la spada, e della kylix, cioè la coppa del vino, riferendosi ai militari sardi che combattevano contro Cartagine o come mercenari dei nuovi signori dell’isola, Come mercenari i sardi formarono anche alcune coorti dell’esercito di Roma.
Come si è detto, Amsicora fu celebrato perché era un capo guerriero degli Iliesi che con i Balari combatterono contro Roma, mentre più tardi gli Iliesi Barbaricini riuscirono a tener testa ai Romani e, ancora al tempo di Bisanzio, come risulta da una lettera del papa Gregorio Magno, Ospitone era un dux, cioè un comandante militare e non solo politico, dei Barbaricini alla pari di Zabarda capo dei Bizantini in Sardegna. La mentalità guerriera dei Sardi si ripresenta in tante occasioni, ad esempio nelle guerre dei giudici d’Arborea, nel tercio mercenario sardo dell’esercito ispanico, nei soldati della 151 e 152 compagnia di fanteria impegnate nel I Guerra Mondiale e ancora oggi, nei militari della Brigata Sassari che operano come i mercenari nell’esercito italiano per necessità economiche. Nel bisogno i Sardi, pacifici, fanno emergere il loro spirito guerriero.
Come si può pensare che soltanto in età nuragica, proprio quando appaiono possenti costruzioni fortificate come i castelli e le torri, la gente fosse inerme e non usasse le armi, dunque non ci fossero guerrieri? Che cosa sono le grandi spade in rame arsenicato di Sant’Iroxi di Decimoputzu,
le altre spade come quelle di Villasor e i tanti pugnali in bronzo dei siti nuragici,
i proiettili in pietra da fionda dei frombolieri attestati già nei protonuraghi,
le frecce per gli arcieri,
le cuspidi di giavellotto e di lancia. Che messaggio possono dare le sculture degli eroi guerrieri con spade corte e lunghe, archi e lance,
diffuse in tutta l’isola, le insegne militari,
le armi sugli altari
e persino sugli acroteri dei templi? È proprio immaginabile che le popolazioni nuragiche fossero inermi e pacifiche?
Forse vaneggiavano Simonide di Ceo, Plutarco e altri autori dell’antica letteratura greca quando scrivevano che al tempo di Minosse, intorno al 1300 a.C. i Sardi assediarono Creta con le loro navi, che allora non dovevano essere tanto diverse da quelle dell’età del Ferro (es. Pipizu di Orroli),
e che, un secolo più tardi, i Sardi si insediarono nella stessa Creta e in Laconia, cioè nella terra di Sparta? I sostenitori del pacifismo nuragico dovrebbero dare una plausibile spiegazione del perché gli scrittori greci erano così attratti dalle vicende dei Sardi dell’età nuragica proposti come guerrieri del mare. Omero addirittura mette un pensiero di vendetta sardonica nella mente di Ulisse, reduce dalla guerra di Troia e orami alle soglie delle vicende dei Popoli del Mare; l’eroe, anziché porgere un ramo di olivo, stermina i Proci che volevano stappargli la moglie Penelope e il regno. Perché mai Omero paragona Ulisse ai Sardi? Non certo perché i nostri antenati nuragici erano pacifici e non sapevano tirare con l’arco come Ulisse; non a caso lo stesso Ulisse perisce per mano dell’arco del figlio Telegono, arco armato con una freccia speciale, la spina sardonica.
Per concludere, complimentandomi ancora con Francesco Casula per la sua opera, mi chiedo se ora non voglia scrivere, con la sua gradevole prosa, un nuovo libro intitolato Controstoria della controstoria nuragica.
(Giovanni Ugas)
Cagliari 27.1.2025