IL PROPRIO INNO. “S’accas ‘andas a Turinu Inie basare dès A su ministru sos pes E a atter su… già m’intendes”

di Francesco Masia
http://www.regione.sardegna.it/documenti/1_422_20190909110517.pdf; questo il link al testo integrale dell’inno e all’esaustiva versione in Italiano (in prosa) che l’accompagna.
Il Prof. Luciano Carta, già docente di storia e filosofia nelle scuole superiori, nella serie di Videolina “40° PARALLELO” (l’avevamo già “apparecchiata” qui: https://www.nurnet.net/blog/storia-della-sardegna-e-dei-sardi/?) ha appena discusso sul peso del feudalesimo nel XVIII secolo, sulle rivolte popolari contro l’insostenibile pressione fiscale, sull’appello degli Stamenti sardi al re (a Torino, per il riconoscimento di maggiori diritti per la Sardegna) e sullo sfociare di tutto questo nella sarda rivoluzione che nel 1794 giunse alla “cacciata” dei piemontesi.
Passa quindi a rispondere sulla figura di Giovanni Maria Angioy e sulle rivendicazioni patriottiche dell’inno di Francesco Ignazio Mannu (1795), “Su patriotu sardu a sos feudatarios” (qui, dall’inizio a 4’,25”: https://www.videolina.it/articolo/video/cultura/2018/12/15/40-parallelo-2018-puntata-6-parte-2-80-810404.html).
Tutti i sardi, dice il Prof. Carta, dovrebbero conoscere questo testo e approfondirlo.
È quello che mi sono ricordato quando ho accostato all’inno la più moderna “Cazz boh”, dei Nasodoble (2014, apparecchiata qui: https://www.facebook.com/506410149437714/posts/4592518744160147), ma in effetti non mi ero ancora deciso a leggerlo tutto. Quindi ho voluto rimediare. Il testo presenta 47 strofe (l’inno di Mameli, del 1847, ne conta 6; la Marsigliese, 1792, ne ha 7) e vi si possono riconoscere i passaggi della Sarda Rivoluzione ad allora, cioè al momento in cui le fazioni politiche originatesi dopo la cacciata dei piemontesi (novatori e normalizzatori) si contendevano il primato per la gestione degli Stamenti (tutto ancora prima dell’incarico di alternos a Giovanni Maria Angioy, che verrà nel Febbraio del ‘96).
Naturalmente testo e traduzione (in genere quella poetica di Sebastiano Satta, del 1896) sono disponibilissimi in rete; eppure, anche tra i sardi avvertiti, sono molto pochi quelli che lo conoscono integralmente. Un esempio emblematico: quanti conservano almeno un ricordo dello “scanzonato” verso di Dante, “Ed elli avea del cul fatto trombetta” (Inferno, XXI, 139)? Pochi che fossero, saranno certamente più di quelli che si sono imbattuti anche solo una volta nella 42ª strofa del Mannu: “S’accas ‘andas a Turinu Inie basare dès A su ministru sos pes E a atter su… già m’intendes”; versi altrettanto sapidi, voglio dire, che se solo in essi ci si fosse imbattuti si ricorderebbero, almeno un po’.
La lunghezza del testo, com’è comprensibile, fa sì che nelle sue esecuzioni (nelle versioni più tradizionali come in quelle più “pop rock”) si proceda, sempre, a una ristretta selezione delle strofe. E altrettanto avviene per la sua codificata versione ufficiale. Il canto è infatti divenuto inno della Regione Sardegna in occasione di Sa Die nel 2018, quando il Consiglio Regionale aveva approvato la relativa legge (LR 14/2018).
Il necessario decreto sulle modalità di attuazione è quindi arrivato per Sa Die del 2019 (DPR 49, 24/04/2019; http://www.regione.sardegna.it/j/v/2644?s=1&v=9&c=390&c1=336&id=82124). Tra queste modalità, una riguarda l’esecuzione di sole sei strofe, o anche meno, selezionate come le più significative. Le sei strofe, individuate dietro il lavoro del “Comitato Sa Die de sa Sardigna” (rappresentante lo stesso Prof. Luciano Carta), sono: le 2 iniziali; la quarta (Su populu chi in profundu/letargu fit sepultadu/finalmente despertadu/s’abbizzat ch’est in cadena), che mette in evidenza il rapporto con l’Illuminismo; la sarcastica strofa 24, che parla del popolo delle campagne al lavoro per ingrassare i ricchi di città (Trabagliade trabagliade/o poveros de sas biddas/pro mantenner in zittade/tantos caddos de istalla); quindi le due esplicite strofe finali, l’invito a combattere (Custa, populos, est s’hora/d’estirpare sos abusos/…/Gherra, gherra a s’egoismu/et gherra a sos oppressores), con la conclusione, famosa quasi come l’incipit (Cando si tenet su bentu/ est prezisu bentulare). Le strofe “tagliate” sono dunque, per la crudele aritmetica, 41; ma sarebbe certamente sbagliato sospettare censure, le ragioni della scelta sono ben comprensibili.
E del resto, come detto sopra, è lo stesso autorevole padrino della selezione (il Prof. Carta) a invitare tutti ad approfondire la lettura del testo integrale. In tal modo sarà chiaro a tutti che l’inno non è solo antifeudale, ma pure antipiemontese (strofe da 31 a 43; in tutto 13, a ben vedere più di 1/4 del totale).
Ora, si capisce che in una pacifica convivenza entro lo Stato italiano non sia bello avere nell’inno ufficiale certe espressioni, per quanto “storiche”, contro un’altra regione. Ma possiamo anche accettare che davvero, fondamentalmente, al di là degli occasionali “occupanti” (che già i Sardi erano riusciti ad allontanare dall’isola e che, appunto, non sarebbero rientrati se non rivoluti dai Sardi), il nemico del popolo erano i sardi feudatari (tirannos minores), che hanno “usato” la forza piemontese come avrebbero usato qualunque altra forza potesse garantire la tenuta del sistema nel quale prosperavano.
Sono loro (non i Piemontesi), nella strofa 28, gli accusati di operare manéggi e inganni per impedire la convocazione delle Cortes (del Parlamento). Sono loro, a canto chiuso, a prendersi la rivincita sull’Angioy e i plebei (vincitori del primo tempo nel Capo di Sopra) e a passare a sopprimere con efferatezza la rivoluzione; loro, si intende, sostenuti dalle forze piemontesi, ma pure dalle milizie popolari, di quel popolo rimasto sordo agli appelli dei patrioti. A leggere il testo integrale si scopre che esso presenta una certa incoerenza interna: a dispetto del titolo, il patriota sardo non si mantiene sempre rivolto ai feudatari.
In particolare vi sono 5 strofe in cui si rivolge ai vassalli (i poveri, i villani, i paesani, la plebe, il popolo, i ronzini): la 19, la 24, la 45 (sardos míos), la 46 e la 47 (pobulos). Ci si può chiedere il perché di tale incoerenza nel Mannu (cui sarebbe da attribuire il titolo e quindi l’intenzione in esso dichiarata): si può tentare una risposta ipotizzando che nel testo siano state raccolte strofe scritte in momenti diversi, con intenzioni differenti; o piuttosto si potrà leggere una difficoltà dello stesso Mannu a credere fino in fondo nelle reali possibilità che il suo appello potesse mai essere accolto da qualche barone, per cui il piano scivola (nell’originale) verso l’appello esplicitamente rivolto al popolo (che, certo, ne era in partenza il destinatario implicito). Forse il Mannu (al di là del titolo) non riusciva a credere possibile includere davvero i baroni nell’appello a tutti i sardi. Probabilmente presentiva, allora, che l’unico sbocco sarebbe stato staccarsi le dita a morsi, nel rimpianto (come da ultima strofa).
E ancora, chi leggerà la versione integrale potrà forse condividere con me tre considerazioni. La prima: nel testo compare solo all’inizio “procurade ‘e moderare”, mentre in pressoché tutte le versioni questo diventa il “ritornello” che, a spese di tante strofe sacrificate, si ripete ad libitum. Da questo dipenderà l’impressione di un testo “moderato”, mentre il resto starebbe a suggerire che il Mannu (il quale non ha scelto come titolo “Procurade ‘e moderare”) lo intendesse solo come un’introduzione soft rispetto al prosieguo.
Quello che è successo a “Su patriotu…”, insomma, può far pensare a un brano rock catalogato tra la musica barocca solo perché introdotto da un accordo di clavicembalo. La seconda riflessione: salterà agli occhi che il testo non presenta nessun richiamo ai nostri monumenti o periodi storici identitari; non c’è un nuraghe, non c’è un regno giudicale (c’è, se non altro, la lingua viva).
Il rammarico è che questo possa ascriversi al buio sulla nostra storia, allora giocoforza imperante (l’antichità era cieca, il passato oscuro); e che questo buio non abbia aiutato. La terza e ultima riflessione riguarda il bene che potrebbe apportare la diffusione di questo testo nelle scuole. A me piace immaginare una pubblicazione che raccolga il testo originale (in Logudorese) accompagnato magari dalle traduzioni in Campidanese, Gallurese, Sassarese, Algherese e Tabarchino, con le versioni in Italiano di Sebastiano Satta e, fondamentale per chiarezza, del Prof. Carta (quella che con questo articolo si vuole raccomandare, riportata nell’allegato C del suddetto DPR 49); una pubblicazione che accompagni i ragazzi a capire cosa a questo testo è stato intorno, cosa lo ha preceduto e cosa lo ha seguito.
È sicuro che chi è riuscito a piazzare Sa Die come celebrazione della Sardegna e “Su patriotu…” come inno regionale ha voluto sistemarci due ordigni sotto le poltrone, nobilmente atti a farci pensare. Perché a farci pensare è la stessa vicenda di Francesco Ignazio Mannu (https://it.m.wikipedia.org/wiki/Francesco_Ignazio_Mannu), ozierese di studi sassaresi, nella carriera legale a Cagliari quando 37enne scrisse “Su patriotu…”, ma che nonostante le sanguinose repressioni che colpirono i patrioti sardi continuerà a vivere a Cagliari morendovi a 81 anni, dopo essere anche divenuto Giudice della Reale Udienza. Immaginarne la vicenda mi fa pensare al 1794 come al 1968 (la Francia c’entra con entrambi), al Mannu come a un (ex) sessantottino, di quelli scampati ai lutti e integratisi nel riflusso.
Pensando ancora alla sua ultima strofa, chissà come stavano poi, davvero, le sue dita.