La condizione femminile nella civiltà nuragica

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Maria Teresa Petrini

da http://consiglio.regione.sardegna.it/ACRS/Attivita-Ass/Rivista/n.18/n18_petrini.asp

“Ascoltiamole raccontare, ascoltiamo le donne, che ci diranno chi erano, come vivevano, quale era il loro censo, a quale stato sociale potevano aspirare. Ne ascolteremo una diecina, e se pur in numero così ridotto sapranno dirci molto.

Abbiamo  un bronzetto che viene indicato come “Donna orante”, una donna che prega la divinità chiedendo una grazia importante (la salute per sé, per un suo caro, per un uomo della famiglia che è lontano a combattere?).

Ha una figurina longilinea accentuata dall’abito a tubino, il bustino è ricoperto da un corto mantello che avvolge le braccia, su tutto un altro mantello che arriva alla caviglia, poggiato mollemente sulle spalle, non fermato al collo da lacci o da fibbie.

L’unico dato elegante concesso è un lavoro di smerlo o di applicazione, quasi un plissé nel bordo del mantello che parte dalla mano sollevata, che é il gesto tipico delle figure nuragiche oranti.

Il braccio destro lievemente scostato dal busto e il gomito piegato verso l’alto, la mano aperta e rigida, il pollice molto staccato. La gonna si stringe alle caviglie, una sottogonna fuoriesce dal bordo pieghettato, forse ornamentale o forse la gonna ha uno spacco posteriore per permettere un’andatura più spedita.

Non si può dire se questa “donna orante” è una popolana che si è fatta “ritrarre” al meglio dall’artista, o una donna di alto lignaggio che si è spogliata dei gioielli in gesto penitente o sofferente per chiedere una grazia.

Un’altra statuina è “una donna offerente con cappello a petaso”, anche questa prega, infatti la mano destra è in atteggiamento di preghiera mentre l’altra tiene qualcosa che offre agli dei insieme al suo dolore.

Questo abbigliamento è più ricco del precedente, il mantello più ampio e importante tutto bordato con una striscia lavorata a piegoline (applicazioni in pelle? o tessuto di un diverso colore?), l’orlo è decorato a smerli. L’abito lungo e stretto ha una sottoveste plissata.

I piedi sono nudi. La pettinatura poco appariscente è ricoperta da un velo aderente al capo che viene trattenuto da un cappello. Un copricapo, forse di paglia e forse colorato, contrasta con l’abbigliamento importante.

La figurina n. 3 chiarisce meglio le fattezze di un cappello, che a nostro parere è di paglia, infatti è un visetto di donna con un cappello che potremo definire “un sombrero”, a tesa larga, sollevato sulla fronte, chiaramente un cappello per riparare, lavorato a sei fasce concentriche, forse colorato per essere visibile a distanza e poggiato su una crocchia a cercine sul capo.

Un’altra figura orante è diversa perché ha il braccio piegato e poggiato sul petto con la mano destra distesa, con fantasia diremo mollemente, sulla spalla, l’altro braccio è mancante.

Questa figurina è meno rigida, le gambe sono divaricate, il capo all’indietro, il visetto più finemente modellato, la fronte arrotondata, i bulbi oculari non troppo sporgenti, le sopracciglia segnate.

Ha una pettinatura elaborata, i capelli divisi sul capo sono raccolti in due trecce, avvolte a crocchia dietro le orecchie.

Ha un lungo mantello sul quale è poggiata una stola che si porta dal davanti sul retro obliquamente, con guarnizioni trasversali; completa l’abbigliamento una gonna a due balze.

foto di Roberto Serra

La statuina  è di una donna con figlio in grembo, una sorta di “Pietà” ante litteram è sicuramente la rappresentazione di una madre con un figlio maschio, un guerriero che lei stringe fra le braccia; che è un guerriero lo si deduce dal pugnaletto, simbolo di comando guerriero che l’uomo, forse giovane, ha sul petto.

Questo pugnale stilizzato si trova nei bronzetti di figure maschili di capi tribù o capi guerrieri. Un guerriero può stare fra le braccia della madre solo se caduto in battaglia o gravemente ferito.

Questa piccola scultura è uno spaccato di vita nuragica, ci racconta la sua storia percorrendo i millenni, ci parla di amore materno, di epiche battaglie combattute corpo a corpo per difendere il villaggio natio.

Che donna è la madre, quale il suo censo? È una donna piena d’amore e di pietà, si tiene ancorata alla fierezza della sua razza. È seduta in atteggiamento solenne su uno sgabello, con in grembo un doloroso fardello, ma la testa è eretta, la schiena diritta, il mantello è lungo e importante, legato al collo da lacci e avvolto intorno alle braccia, la gonna lunga a tre balze o strati.

Un abbigliamento, il suo, non certo quotidiano o da donna del popolo, ma di alto lignaggio: da sacerdotessa o da moglie di un grande capo, oppure allora essere la madre di un maschio guerriero era simbolo di grande affermazione sociale.

Un’altra madre, seduta anch’essa su uno sgabello, con un figlio in braccio è la figurina n. 6. Solo le madri sono rappresentate sedute, gli uomini, siano guerrieri o pastori o rappresentanti di qualsiasi mestiere, sono sempre fieramente in piedi. Questa madre ha in braccio un figlio maschio, chiaramente un bambino o un ragazzetto malato, gli tiene il capo poggiato sulla spalla, e chiede alla divinità di salvargli quel figlio maschio ormai grandino, che sarà la sua stessa possibilità di sopravvivenza.

Che farà lei vecchia, sola, senza un uomo che le porti il cibo, senza una nuora da comandare a bacchetta, senza nipoti da coccolare e viziare? Il suo grido di dolore è arrivato fino a noi: “vivi! vivi figlio mio! vivi per tua madre!”.

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Un’altra donna diversa dalle precedenti per atteggiamento offerente e per abbigliamento è “la libagione” (fig. 7). Offre una ciotola alla divinità, che contiene probabilmente del buon vino. L’artigiano in questa opera ha curato i particolari: le mani sono piccole, il polso sinistro è flesso e la ciotola incurvata, forse un incitamento a gradire appunto la libagione. La “signora” ha in testa un cappello vezzoso e serio nello stesso tempo, che non ha ornamenti, il “gioco” è solo nella foggia conica, forse di paglia o di pelle, probabilmente per “slanciare” una donna di piccola statura.
I capelli sono raccolti dentro il cappello, al collo ha una pesante gorgiera, (di metallo prezioso?), il mantello molto elegante e lavorato, ha un colletto rivoltato, un gioco di disegni nel dietro, come chi mostra le spalle ad una grande folla, la parte alta è lavorata con larghe pieghe, più sotto una striscia orizzontale lavorata a spina di pesce. La veste è stretta, un tubino con le “solite” balze, i piedi sembrano calzati.

La fisionomia è decisamente brutta, un viso triangolare senza espressione alcuna, la bocca semiaperta. L’artista si è espresso nella ricchezza dell’abbigliamento, decisamente importante.

Una madre ha fatto fare alla sua figlioletta appena adolescente una statuina (fig. 8), una giovane donna che si affaccia alla vita e forse è presentata “ufficialmente” agli dei, ai quali offre un cestino, che tiene nella mano sinistra, probabilmente pieno di dolci data la squisita fattura, nella destra un frutto della terra. Ha una pettinatura difficile da realizzare da sola, due treccioline avvolte a crocchiette a nascondere le orecchie, una veste corta sopra il ginocchio, forse una tunichetta con un bordo-gonna più ampio, senza maniche, senza mantello, senza gioielli.

Che vita avrà avuto questa ragazza? Sua madre avrà commissionato questo “ritratto” per ricordarla negli anni a venire dato che andrà sposa, al di là del mare, al Lucumone della lontana Etruria, portando con sé un cofanetto (fig. 9) di pura fattura nuragica pieno dei suoi tesori: un bottone a forma di nuraghe (quello natio?) ed un piccolo trono miniato in pietra, simbolo della sua casta.

Da questo breve excursus, possiamo affermare che la donna in epoca nuragica ha goduto di grande prestigio, specie come madre ed in particolare di figli maschi.

Ma queste donne hanno amato molto le loro bambine, tanto da farle ritrarre ed immortalare in bronzetti e le mandavano spose con ricchi corredi di abiti e gioielli.

Che vi siano state donne molto importanti è indiscusso, lo possiamo dedurre dall’abbigliamento, alcuni mantelli particolarmente ornati raccontano di solenni cerimonie nei pozzi sacri (Santa Cristina, santa Vittoria di Serri), o di processioni rituali (lungo i menhir di Goni).

L’abbigliamento veniva confezionato con stoffe di vari tessuti, da loro stesse lavorate o comprate con i traffici, avevano senz’altro la lana più spessa per i mantelli, infatti un mantello di pelle non può avere quelle fini decorazioni della statuina, cosiddetta “della libagione”, tessevano delle lane sottili per le tuniche degli abiti, il lino o la canapa per le sottogonne, come si può dedurre dal plissé che spunta dagli abiti a tubino.

Probabilmente conoscevano la seta o il bisso, come si può dedurre dal velo che la figurina, col cappello a petaso, sfoggia a ricoprire i capelli e il collo, perfino con la difficile lavorazione del bronzo di allora, l’artista-artigiano è riuscito a rendere la sottigliezza del tessuto.

è probabile che conoscessero l’arte del filare il bisso marino, filando la schiuma delle gnacchere, arte tipicamente fenicia, dicono gli storici, e colorata con la porpora dei murici, entrambi abbondantemente presenti nei mari di Sardegna.

Ma, oltre la vasta gamma di tessuti, possedevano gioielli, in particolare collane di pietre dure importanti, forate al bulino e levigate (quarzo, turchese, ambra), di conchiglie, di osso.

Bracciali a tutto cerchio o aperti, lisci o a torchon, di bronzo, d’argento ed anche d’oro.

Fibbie, spille, spilloni da capelli, orecchini di finissima fattura e foggia portabili ancor oggi, cavigliere, anelli di solo metallo o ornati di pietre, specchi in bronzo levigato dal manico ornato. Il tutto riposto accuratamente dentro cofanetti bronzei, gioielli anche questi.

Preparare il pane era per loro un rito importante, abbiamo ritrovato delle pintadere, specie di grossi timbri che imprimevano un delicato disegno geometrico sulla focaccia; ne sono arrivate molte fino a noi, pur se di terracotta, una è stata scelta come simbolo del Banco di Sardegna.
Oltre il pane preparavano squisiti dolci a base di miele e vino, lo deduciamo dai cestini lavorati a finissimi intrecci, che offrivano appunto agli dei e confezionavano probabilmente, come ancor oggi, per le feste religiose.

Dovevano essere delle brave cuoche, perché la loro dieta era mista ed abbondante, come si evidenzia dallo studio effettuato sulla morfologia delle ossa e dei denti, che non presentano gravi carenze.

Erano esperte nel commercio, infatti molti oggetti di altre civiltà si sono trovati nei nuraghi o nelle capanne-abitazioni, o nelle tombe. Per esempio frammenti di vasi etruschi o attici, o vaghi di collane in ambra, che in Sardegna non esisteva.

Donne forti, che credevano nei valori della famiglia e della divinità, industriose, eleganti nei loro costumi e nei loro gioielli.

Conservatrici di tradizioni e di arti minori: tessere, ricamare, tingere i tessuti, fare il pane, i dolci, l’olio, il vino. Conservare il tutto con sapiente maestria. Ancora nei volti, nelle capacità e, perché no?, nelle tradizioni, ritroviamo nelle donne della Sardegna di oggi l’eco delle antiche progenitrici.

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