Su Nuraxi

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di Giorgio Valdès
Definire il complesso nuragico de “Su Nuraxi” a Barumini il più importante simbolo della civiltà che in Sardegna si svolse nell’Età del Bronzo, è una considerazione pressoché scontata e peraltro confermata dal fatto che, dal 1997, la grandiosa area archeologica è stata inserita dall’Unesco tra i beni patrimonio mondiale dell’Umanità. Come tanti altri monumenti simili che caratterizzano il paesaggio isolano, Su Nuraxi rimase occultato sotto terra per alcuni millenni sino a quando, nell’anno 1949, Giovanni Lilliu lo riportò alla luce. Luisanna Usai, in un suo articolo riferito alla Preistoria e alla Civiltà Nuragica, pubblicato nel 2011 dall’Editoriale della Nuova Sardegna sotto il titolo “La Sardegna, tutta la Storia in mille domande”, riferisce di questa scoperta con le stesse parole del professor Lilliu:
<< La posizione e funzione immaginifica del nuraghe – dice il prof. Lilliu- si rivelava a noi ragazzi principalmente in occasione della festa che si celebrava a Tuili nel luglio incandescente, in onore di “Sant’Antoni de su fogu”, quello del porco e del campanello (“La campanella, spesso appesa al bastone del Santo e da alcuni interpretata come simbolo della morte e della resurrezione, rappresenta storicamente quella che i maiali di Sant’Antonio portavano al collo per essere riconosciuti e quindi nutriti dalla popolazione…In alcuni quadri e sculture la campanella è al posto giusto, allacciata al collo del maiale…” - nota dello scrivente tratta da: “Il fuoco di Sant’Antonio – Storia, tradizioni e medicina” di Carlo Gelmetti). La nostra piccola schiera non mancava annualmente di visitare il Santo, o meglio il “muristeni” impreziosito di logge seicentesche in pietra viva, tutto in giro alla chiesa del convento. Il “muristeni” era stipato di pellegrini, pieno di voci e suoni, ricolmo di brocche, ferraglie, “strex’e fenu” (cestino di giunco e fieno di grano -nota dello scrivente)e altre mercanzie. Principe dei mercanti era Antonixeddu “casteddaiu”, con panni e tessuti esposti nel più evidente e ampio loggiato. Le stoviglie le gridavano a gara i vasai di Nuradda e di Pabillonis, e dei “cabesusesus” era esclusiva la vendita dell’utensileria in metallo e degli arnesi in legno di castagno recati a cavallo dalle lontane Barbagie. Il nostro shopping si limitava a un sorbetto di “carapigna” e a un pizzico di torrone nocciolato di Tonara, lo spettacolo alla corsa dei cavalli (falsi berberi di paesi vicini); “su spassiu” e un giro di ballo più o meno vigilato dai grandi. << Ma la nostra vera festa era il ritorno, la notte che una volta tanto ci era consentita fuori dal rigido rientro delle otto di sera; e il night lo offriva proprio la collina incantata del nuraghe sotto la luna, con la compagnia di quanto celava nel suo antico grembo. Da un’armonica passata di bocca in bocca, da un vecchio mandolino e da una chitarra trasparente nella sua scatola, alternate a canti, uscivano le note di “La Spagnola, Stramilano, Signorinella pallida, Balocchi e profumi” e altro d’un repertorio di musica leggera che si può immaginare come alterato e deviato nei passaggi dal Continente a Cagliari e da Cagliari a Barumini, è a dire dalla più fine espressione linguistica al più spregevole dialetto. Sdraiati sull’alto della collina, in nessuno di noi entrava il sospetto che essa era una cosa somigliante, nelle stratificazioni dell’interno, ai meravigliosi e celebri “tell” di Troia e del Vicino Oriente; e che le nostre voci e suoni si levavano al disopra di altre voci e suoni cessati per sempre e sepolti nel luogo della nostra romantica sosta musicale e canterina. Del resto, come avremmo potuto immaginare il tesoro nascosto di un autentico piccolo villaggio contenuto nel tumulo se l’aratro a chiodo vi saliva sino al punto più elevato, toccando e graffiando appena qualche pietra di ingombro? << E’ questa la storia della mia scoperta del nuraghe di Barumini. Un impatto infantile, innocente, fantasioso e irrazionale, all’unisono con la cultura del paese, senza del quale non sarei riuscito, diventato “homo sapiens”, a scegliere, scavare e divulgare uno dei monumenti protostorici più importanti e significativi dell’isola e del Mediterraneo occidentale. Che vi sia stata in ciò una sorta di predestinazione me lo hanno detto in molti. Che nelle cose della storia sia presente, qualche volta, un filo rosso di continuità è possibile. Non di rado in me, quando penso a quel nuraghe del mio villaggio, dei miei morti vicini e lontani, sorge un quid sentimentale in cui si mescolano metastoria e scienza, “fattura” e ragione, destino e scelta, sorte e determinazione. << In fondo, con tale contributo d’insieme, la ricostruzione delle vicende del grandioso castello e del dipendente villaggio, vissuti circa mille e trecento anni in un seguito complesso di culture e di genti rispecchiate nei livelli sovrapposti del terreno archeologico, perde la freddezza solita della ricerca scientifica e acquista dimensione e calore umani, sì da rendersi comprensibile e godibile da tutti >>.
La foto de “Su Nuraxi” è di Nicola Castangia.