La Gallura e i suoi antichi sepolcri

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di Giorgio Valdès

Le “tombe di giganti” di Coddu Ecchju e Li Lolghi, in territorio di Arzachena e quella denominata Pascaredda a Calangianus, sono tre delle caratteristiche sepolture collettive galluresi, erette nel corso del Bronzo medio.

Questa denominazione popolare, quindi assunta per convenzione nella terminologia archeologica, è dovuta soprattutto alla dimensione del corpo tombale e della camera funeraria, in grado di contenere, come afferma l’archeologo Paolo Melis, decine se non addirittura centinaia di inumati.

Le tombe galluresi, in particolare, sono del tipo così detto “dolmeico”, in quanto dotate di una camera sepolcrale allungata, realizzata con lastroni di pietra infissi verticalmente. Anteriormente il corpo tombale si articola in due bracci lunati –la così detta esedra- in una stele centinata centrale, suddivisa da un listello inciso nella sua parte mediana, e in un angusto portello posizionato in basso a filo terreno.

Delle tre TdG, quella di Coddu Ecchju (posta sul fronte delle vigne del Capichera) mostra la stele più intatta, mentre di quella di Pascaredda residua solo la parte inferiore. La TdG di Li Lolghi, per certi versi la più maestosa delle tre, presenta invece il registro superiore fratturato obliquamente.

I rispettivi portelli, proprio per le loro ridotte dimensioni, assumevano probabilmente un significato simbolico, mentre le deposizioni avvenivano direttamente accedendo al corpo tombale mediante la temporanea rimozione di una o più lastre litiche.

La planimetria di questi monumenti, assimilabile a una protome taurina o, per converso, al grembo materno, parrebbe voler rimandare a quei concetti di potenza sessuale e di fertilità che caratterizzava la religiosità degli antichi sardi.

Ma anche il prospetto della stele centrale potrebbe assimilarsi ad un apparato genitale femminile, fonte di vita e di “agognato ritorno”, a conclusione dell’esistenza terrena.

Il concetto di fertilità trova peraltro un’interessante conferma in un pane della tradizione denominato Càbude.

Quello che si propone nell’immagine tratta dal libro “I Pani della Sardegna” del glottologo Salvatore Dedola è il Càbude di Mores, esposto nel museo del pane rituale di Borore, affiancato alla stele centrale della tdg di Coddu Ecchju.

La somiglianza, in particolare, con la stele centrale delle tombe di giganti dolmeiche è abbastanza evidente, ma a questo si aggiunge il fatto che, secondo le interessanti considerazioni del professor Dedola, questi pani, come altri analoghi, spesso venivano “spezzati dal pater-familias sulla testa della figlia sposa, del figlio maggiore o di altri familiari o addirittura sulla testa dei dipendenti…” Sempre l’autore del libro appena citato osserva che “Su càbude fu usato non solo per essere frantumato sulla testa ma pure per essere appeso nell’ovile, oltre che per essere sbriciolato nel campo o nell’ovile medesimo, quale gesto di buon auspicio per i futuri raccolti e per le future figlianze. Questo è un atto che ricorda l’antico sgozzamento sacrificale”.