di Giorgio Valdès
L’acqua, elemento naturale notoriamente connesso alla creazione ed alla vita, è stata universalmente venerata nelle sue diverse manifestazioni e ad essa sono stati dedicati edifici di culto dalle forme più disparate, compresi quelli presenti in Sardegna. Giovanni Lilliu scriveva nel 2006 su “Sardegna Nuragica”: “Templi e fonti sono testimonianze significative di religione cui è sottesa la penuria d’acqua. Architetture che evocano insieme l’arte di cui fu capace la civiltà nuragica per raccogliere e conservare, come in uno scrigno, l’elemento liquido prezioso per i campi, il bestiame, l’uomo stesso, e la siccità (‘sa siccagna’ la chiamano oggi i Sardi): male antico come la peste, la carestia e la fame…”.
Diversi anni prima, e più esattamente nel 1912, il famoso storico delle religioni Raffaele Petazzoni, scriveva a sua volta nelle pagine del suo libro “La Religione Primitiva della Sardegna”, che “ La religione dei fenomeni e degli elementi naturali si manifestò in Sardegna nella forma di religione delle acque….Le acque erano il rimedio provvidenziale a molti mali che infestavano la gente sarda…..I luoghi sacri, ove gli infermi accorrevano in folla per impetrare la guarigione, sorgevano vicino ad una pura fonte o poco lungi da un corso d’acqua….In tutti i santuari si conserva gelosamente, entro un serbatoio simbolico protetto dall’alta cupola, il sacro elemento che aveva virtù di guarire gli infermi e denunziare i colpevoli.” Il pozzo sacro, come descritto dal Petazzoni, è uno di questi “templi”; una struttura litica in cui si professavano appunto i riti sacri connessi all’acqua ma pure ad altre espressioni naturali come il sole e la luna, peraltro venerati anche in altre culture un tempo a noi vicine, tra cui in particolare quella dell’Egitto faraonico. Di queste “templi” se ne trovano molteplici in tutta la Sardegna, tra cui quelli a pozzo, come il “S.Cristina” di Paulilatino, che propongono uno schema architettonico simile a quello della torre nuragica, con una cupola voltata a “tholos”, sulla cui sommità è presente un foro circolare da cui penetra la luce del sole (o della luna), sino ad intercettare l’acqua presente sul fondo. E anche vero che secondo una differente teoria, il pozzo di S.Cristina era un tempo coperto da una struttura “fuori terra”, per quanto non risulti che di quest’ultima siano state trovate tracce significative. I pozzi sacri, come anche i nuraghi, possono comunque considerarsi come la casa della divinità, i luoghi in cui si svolgevano i riti ordalici del “giudizio di dio” così descritto dal Petazzoni: “Nel giudizio sardo dell’acqua era, dunque, praticato il giuramento, ma con carattere ancora perfettamente ordalico. Infatti il colpevole giurava; ma la sanzione che teneva dietro al giuramento traeva origine e, per così dire, emanava da un potere soprannaturale, che era in rapporto con l’elemento dell’acqua “. Si può anche supporre che al loro interno si praticassero anche cerimonie di purificazione, quando avveniva il contatto tra l’acqua primigenia e la luce solare o lunare. Momento catartico analogo al battesimo cristiano, attraverso il quale si sanciva l’appartenenza ad una stessa comunità o ad uno stesso popolo. E’ tra l’altro interessante osservare come lo schema planimetrico di gran parte dei pozzi sacri, rappresenti ancora una volta l’apparato genitale esterno femminile, confermando in tal modo il valore ad esso attribuito dalla nostra protocultura, che lo considerava il luogo sacro da cui germogliava o si rigenerava la vita. Ma è altrettanto singolare il fatto che tale schema rimandi, ancora una volta, alla cultura egizia e lo si ritroverà successivamente in quella fenicia. Se a tale proposito si prende in considerazione il profilo del pozzo sacro di S.Cristina, esso raffigura il “pendaglio Menat” che rappresentava l’emblema di Hator, dea egizia dell’amore, della gioia e dell’ebbrezza, ma anche dea solare dell’Occidente, spesso ritratta in forma di “vacca sacra” che, secondo la tradizione, affiancava Osiride nell’accoglienza dei defunti nell’Oltretomba.