Monte d’Accoddi

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di Giorgio Valdès

Sul “tempio-altare” di Monte d’Accoddi -ubicato in territorio di Sassari e più precisamente lungo il tratto della S.S. 131 che conduce a Porto Torres- si è scritto sicuramente tanto e a ragione, vista la rilevanza e l’originalità di quest’importantissima testimonianza del nostro lontanissimo passato. Nel sito Mibact si legge al proposito che “il complesso prenuragico di Monte d’Accoddi è costituito da uno straordinario monumento, a tutt’oggi unico non solo in Europa ma nell’intero bacino Mediterraneo, che ricorda le  ‘ziqqurath’ orientali e da un villaggio. Gli scavi archeologici hanno portato alla luce una serie di imponenti costruzioni, costituite dai resti di due strutture templari sovrapposte pertinenti a fasi culturali tardo neolitiche ed eneolitiche. La più antica frequentazione umana del pianoro di Monte d’Accoddi è da attribuirsi al Neolitico Recente; in una successiva fase, pertinente alla Cultura di Ozieri del Neolitico Finale (ca 3.500-2.900 a.C.), il sito vede l’insediarsi di numerosi gruppi umani. L’abitato di questa fase fa capo ad un centro cerimoniale – evidentemente di una certa importanza – con diversi menhir, lastre sacrificali e blocchi sferoidi dall’incerto significato. In una fase matura della Cultura di Ozieri le genti del luogo edificano un grande santuario: una struttura tronco piramidale, preceduta da una rampa sulla quale si erge un vano rettangolare. Tutte le superfici di questa grandiosa costruzione sono intonacate e dipinte, principalmente di rosso ocra (da qui la denominazione di ‘Tempio rosso’) seppure non mancano tracce di colori come il giallo e il nero. Intorno al 2.800 a.C. circa il ‘Tempio Rosso’ è ormai in rovina e viene realizzata quella ‘incamiciatura’ muraria in blocchi ciclopici di calcare che oggi caratterizza il monumento all’esterno.”

I primi scavi furono condotti da Ercole Contu (1954-1958) e da Santo Tinè (1979-1990). Ercole Contu osservava inizialmente come il nome del sito fosse piuttosto misterioso, ipotizzando che la il termine “accoddi” potesse derivare da un’erba (kòdoro, cioè terebinto) o da luogo di raccolta(accoddi) o da corno (la corra). Ipotizzava infine anche l’attinenza con un termine sardo che indicava l’atto dell’accoppiamento. Più tardi il professor Virgilio Tetti avrebbe accertato che il nome più antico documentato nelle carte catastali era Monte de Code, che significava Monte-collina delle pietre (coda/e significa pietra/e). Alberto Moravetti, in un’edizione dei “Quaderni di Darwin” edita nel 2006, scriveva infine che “il riferimento alla pietra si ritrova anche nella traduzione spagnola, risalente al ‘600, del condaghe medievale di San Michele di Salvennor, nel quale la collina viene chiamata «Monton de la Piedra». E infatti, prima degli scavi, le poche pietre ancora affioranti davano proprio questo aspetto alla ‘misteriosa’ collinetta”.

Dall’interessante articolo di Moravetti abbiamo estratto un brano significativo, che si riporta qui di seguito:

“La ziggurat di Monte d’Accoddi ricorda inoltre – ma soltanto come puro richiamo letterario – l’altare che Javeh impone di costruire a Mosé: doveva essere di pietre rozze o terra e accessibile a mezzo di una rampa senza gradini, e questo affinché, per la corta tunica, non si generasse scandalo. E siamo intorno al 2200 a.C. Forse, come avveniva nelle ziggurat mesopotamiche, anche la piramide tronca di Monte d’Accoddi era destinata alle feste sacre legate al ciclo agrario, alla feracità dei campi, ai riti propiziatori della fertilità per uomini e animali e altro ancora. Fin dai primi interventi era apparso chiaro che Monte d’Accoddi era un monumento anteriore all’età dei nuraghi, non solo per la sua inedita architettura ma per i materiali che si andavano ritrovando, riferibili ai tempi delle culture di Ozieri, di Filigosa, di Abealzu, Monte Claro e Campaniforme, fra il Neolitico Recente e l’Età del Rame. A ribadire l’alta antichità del complesso archeologico si dispone di numerose datazioni radiometriche, fra le quali risultano di particolare interesse cinque datazioni non calibrate dal Laboratorio di Utrech. In conclusione, sulla base dei dati finora disponibili si possono determinare in qualche misura le fasi costruttive della ‘ziggurat’ e i diversi momenti di frequentazione di Monte d’Accoddi. L’area ove ora sorge la ‘ziggurat’ e il villaggio-santuario è stata per la prima volta occupata ai tempi della cultura di San Ciriaco (3500-3200 a.C.) agli inizi del Neolitico Recente, come documentano ceramiche e i resti di capanne circolari seminterrate. Su questo primo impianto si sovrappose un nuovo nucleo abitativo riferibile alla cultura di Ozieri (3200-2900 a.C.), provvisto di un’area di culto segnata da un menhir, dalla lastra con fori passanti. Successivamente, nella fase finale della stessa cultura di Ozieri – ma per altri nella successiva cultura eneolitica di Filigosa – l’area del menhir venne parzialmente occupata dalla costruzione del primo altare a terrazza, munito di rampa e spianata con sacello intonacato e dipinto di rosso. I dati di scavo hanno rivelato che la prima piramide con il sacello venne distrutta da un incendio, dopo il quale fu ricoperta da terra e pietrame ben assestato con un sistema di cassoni radiali, e quindi venne eretto un nuovo sacello, rialzato di vari metri, mentre anche la piramide e la rampa venivano ricostruite e ampliate. La seconda piramide – costruita ai tempi di Filigosa ma per altri durante la cultura di Abealzu (2700 a.C.) – rimase in uso nell’Eneolitico, come attestano i materiali delle culture di Filigosa, Abealzu, Monte Claro e Campaniforme rinvenuti nelle capanne che sorgono ai piedi della piramide, ma già ai tempi della cultura di Bonnanaro, nel I Bronzo (1800-1600 a.C.), il santuario doveva essere in abbandono anche se non mancano tracce di frequentazioni più recenti come quelle molto rare nuragiche, fenicio-puniche, di età romana e medioevale. A testimoniare che già durante il Bronzo Antico il santuario aveva perduto la sua funzione di luogo di culto, va segnalata la sepoltura di un fanciullo di sei anni, rinvenuta all’interno del riempimento dell’angolo sud-est della ‘ziggurat’. Si tratta di un seppellimento di tipo secondario, costituito dal solo cranio – brachicefalo e affetto da appiattimento congenito della volta cranica (platicefalia) – coperto, quasi come un elmo, da un vaso a tripode di terracotta e con accanto una ciotola. Le ceramiche di corredo attestano che si tratta di una tomba della cultura di Bonnanaro (1800-1600 a.C.), quando il grande altare era già da tempo abbandonato e in rovina, luogo di frequentazioni sporadiche e occasionali”.

La foto è di Gianf84 per Wikipedia.