di Giorgio Valdès Traggo spunto dalle considerazioni, sempre pacate ed equilibrate, che l’archeologa Consuelo Rodriguez Lintas ha espresso sul profilo facebook di Nurnet. Ho avuto modo, nel corso della mia attività professionale, di confrontarmi con capi cantiere o a volte con semplici operai che mi hanno comunque insegnato qualcosa, frutto di una competenza acquisita sul campo, piuttosto che in un’aula universitaria, ma non per questo meno valida. Discorso analogo può estendersi a tutte le altre discipline, compresa in particolare l’archeologia, che per sua natura si basa parecchio su indizi e intuizioni. Ascoltare tutti, senza preclusioni mentali, cercando di “filtrare” ciò che di buono può esserci nelle riflessioni altrui è un esercizio che chiunque dovrebbe svolgere per incrementare il proprio bagaglio di conoscenze e spesso di dubbi. Ciò che a volte sfugge ad alcuni è lo spirito di Nurnet, che vuole proporsi soprattutto come collettore di conoscenze, sia che esse provengano dagli ambienti scientifici e dai detentori del sapere, sia che giungano “dal basso” (il programma Nurnet “adotta un nuraghe” è appunto espressione di queste ultime). Per dirla in termini esotici, il nostro desiderio è quello di coniugare le esperienze top-down con quelle bottom-up. Operativamente abbiamo scelto di costituirci in Fondazione perché fosse ben chiara la volontà di non distribuire né dividendi né utili, cosa esplicitamente vietata alle organizzazioni come la nostra. Le risorse che auspichiamo di poter reperire, ricorrendo in particolare a sistemi crowdfunding, servono pertanto a garantirne esclusivamente l’operatività, anche perché finora le spese sono state sostenute direttamente dai soci e come può comprendere chiunque sia avvezzo a ragionare serenamente, rifuggendo dalle derive demagogiche, qualsiasi struttura operativa non può prescindere dagli apporti finanziari necessari per gestire una sede, affittare un server, pagare le bollette, noleggiare una sala per tenere una conferenza o per un semplice rimborso di carburante. Professionalmente mi occupo di turismo da più di quarant’anni, e ho quindi ritenuto utile mettere a disposizione della Fondazione la mia lunga esperienza in materia, unita a un’ugualmente datata passione (dilettantistica) per la protostoria della Sardegna. Così hanno fatto e continuano a fare, nell’ambito delle rispettive competenze e capacità, i tanti soci della Fondazione che hanno contribuito alla sua nascita e al suo sviluppo dinamico, pagando ciascuno una quota d’iscrizione di cento euro, che non è sicuramente poco, specie in un periodo come questo, ma che è anche un chiaro sintomo del desiderio di fare qualcosa per la propria isola, nella consapevolezza di non doverne ottenere alcun tornaconto. Che poi, in realtà, un tornaconto sicuramente esiste, perché riuscendo ad esportare un’immagine fortemente identitaria della Sardegna, è certo che i benefici conseguenti ricadranno sui giovani, sui nostri figli, sulle generazioni future e, per esteso, sull’intero contesto sociale del territorio sardo. A questo proposito, proprio la mia lunghissima esperienza in campo turistico e la buona conoscenza del mercato della domanda, mi consentono d’intuire perfettamente quale importanza rivesta l’unicità del nostro straordinario patrimonio archeologico, ma anche quanto sarebbe insensato non utilizzare le opportunità che la storia e il tempo ci hanno dispensato a piene mani. Basterebbe semplicemente osservare che quella mediterranea, secondo i sondaggi dell’Organizzazione Mondiale del Turismo, è in assoluto la meta più gettonata a livello globale, prescelta dal 30% circa (trecento milioni circa) di “vacanzieri” e con trend in costante crescita. Questo perché il Mediterraneo è percepito, a ragione, come la culla delle civiltà, con le sue storie, i suoi tesori archeologici e anche le sue leggende (argomento spinoso ma mediaticamente importantissimo). Di questa immensa popolazione turistica la Sardegna, nonostante possieda il patrimonio archeologico più numeroso, denso e originale dell’intero pianeta, riesce a intercettarne solo una “briciola”, quantificabile in circa due milioni di arrivi annui. Si tratta allora di decidere cosa intendiamo fare da grandi, perché se reputiamo soddisfacente tenere ben chiuse in un forziere le testimonianze materiali della nostra protostoria, Nurnet non ha ragione di esistere o in alternativa, come afferma qualcuno, potrebbe dedicarsi a sistemare gli accessi ai nuraghi e piazzare cestini per buttarci cartacce. Se volessimo invece esportare la percezione di un’isola che ha svolto un ruolo storico rilevante, centinaia d’anni prima della fondazione di Roma, acquisendo da ciò anche indubbi benefici economici, allora l’archeologia non basta, ma dobbiamo ricorrere all’interdisciplinarità delle competenze e all’apporto di tutti, compreso quello dei semplici appassionati che desiderino offrire il proprio supporto al nostro progetto.