Su Ju

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di Giorgio Valdès Il giogo, antico dispositivo utilizzato per la trazione animale ma anche per indicare gli stessi animali su cui viene applicato, generalmente una coppia di buoi, in lingua sarda viene chiamato “Su Ju”, “Su Juale”, “Su Juvale” o in altre maniere simili. Quello composto da due buoi di razza modicano sardo, trasporta tradizionalmente il cocchio di S.Efisio durante l’omonima sagra e i più anziani si ricorderanno probabilmente di ziu Antoni, che allevava una doppia coppia di buoi (una di riserva all’altra), adibiti al trasporto del santo. “Su Ju” più adulto era composto dalla coppia “Bollemu” e “Po Tui”, nomi che sottolineavano l’affetto che legava i due animali, mentre i due più giovani si chiamavano “Mancai Provisi” e “Non Ci’Arrenescisi” per ironizzare sul fatto che difficilmente sarebbero stati all’altezza della coppia più matura. A parte queste simpatiche curiosità “Su Ju”, nell’antica tradizione sarda, aveva anche un altro uso. Scrive a questo proposito Dolores Turchi, richiamando alcune testimonianze, che per facilitare il trapasso a miglior vita delle persone sofferenti ed agonizzanti, “ il rimedio maggiore era considerato da tutti, come afferma l’Angius, il giogo di un aratro o di un carro. Tale strumento doveva avere una valenza particolare. Durante alcune mie ricerche fatte diversi anni orsono in numerosi paesi, ho potuto constatare che quasi tutte le persone di una certa età erano a conoscenza di questa pratica. Precisavano anche che il giogo doveva essere trattato con un rispetto ‘religioso’ e che non si doveva mai bruciare. Secondo alcuni l’agonia prolungata era data proprio dal fatto che il moribondo si era macchiato in vita del delitto di aver bruciato un giogo. Ad Urzulei si diceva: ‘Se il giogo è vecchio e inservibile si sistema in un angolo, dietro la porta, e si lascia lì. Non si deve mai mettere al fuoco. Un tempo, quando una persona stentava a morire si metteva il giogo sotto la testa’. La stessa cosa si afferma ad Orgosolo, Benetutti, Bitti, Oliena, Orotelli, Mamoiada, Dorgali. A Sarule si aggiunge: ‘Se un individuo si dibatteva a lungo tra la vita e la morte si prendeva il giogo, su juvale, si segnava il moribondo, gli si faceva baciare lo strumento che poi si metteva sotto la sua testa’. Quando l’individuo moriva si metteva su juvale sotto il letto con due spiedi incrociati. Uguale affermazione si fa ad Ollolai. La stessa usanza vi era anche in Baronia. A Siniscola si precisa: ‘Su juale era considerato un oggetto sacro…Si diceva che un uomo che buttava o bruciava il legno appartenuto ad un giogo, ai momento della morte soffriva molto ed aveva agonia lunga. Quando si vedeva che un uomo stentava a morire, gli facevano baciare il giogo e dicevano delle preghiere per liberarlo dal sacrilegio che poteva aver commesso durante la sua vita bruciando il legno di un giogo. Ancora oggi molte persone se vedono un giogo buttato in campagna non io toccano, per paura di commettere sacrilegio’. Un’altra testimonianza attendibile ci viene dal mondo della chiesa: ‘Quand’ero parroco a Sìndia mi è capitato diverse volte, mentre davo il sacramento dell’estrema unzione, di vedere sotto il guanciale di qualche moribondo il giogo dei buoi. Io rimproveravo le donne che facevano questo, ma loro erano convinte che con quello strumento al collo l’agonizzante non avrebbe sofferto a lungo. Ho visto fare ciò anche a Sedilo’. In molti paesi si afferma che su juvale veniva usato anche per facilita il parto e per proteggere il bimbo dalle surbiles. In questo caso lo si metteva sotto il letto o dietro la porta (Ollolai, Orgosolo, Benetutti, Oliena, Bitti, Tanaunella). Evidentemente gli si attribuivano anche poteri apotropaici, ma è chiaro che tale strumento presiedeva alla nascita e alla morte degli individui. L’efficacia del giogo per evitare la lunga agonia è evidente anche attraverso alcuni detti popolari. Il Ferraro raccolse nel secolo scorso, a Siniscola, questo indovinello: ‘ Duos montes paris paris, / duas cannas treme treme, / si lu pones in cabizza, / prus lestru ti nde moris’ (due monti pari pari, due canne che tremano, se lo metti sotto la testa, muori più rapidamente). Ovviamente la risposta era: su juale. Il Ferraro riferisce inoltre: ‘Questa è una superstizione dei contadini di molti luoghi in Sardegna, cioè che chi ha lunga agonia, non pode’ morrer si non bi pònini in cabizza unu juale’”. A proposito di quanto sinora riferito, osservo che la pratica di mettere il giogo sotto il capo del morente è analoga a quella utilizzata nell’antico Egitto, dove si ricorreva ad un oggetto a forma di mezzaluna chiamato “ueres”, adoperato anche dai vivi ma soprattutto come sostegno per il capo dei defunti. In quest’ultimo caso il materiale con cui veniva realizzato, a parte il legno, era l’avorio, l’alabastro, la terracotta e le pietre dure. Sulle pagine dell’Enciclopedia Treccani si legge in particolare che “lo stretto legame esistente tra il poggiatesta e la testa del dormiente, e quindi del defunto, fa assumere all’oggetto nell’ambito delle credenze funerarie un valore magico, riscontrabile nei Testi dei Sarcofagi del Medio Regno e successivamente nel Libro dei Morti; non a caso a partire dalla XVIII dinastia la forma del poggiatesta entra a far parte della tipologia degli amuleti funerari, talvolta accompagnata da specifiche formule magiche”. L’egittologa Maria Carmela Betrò scrive a sua volta: “Legato come era all’inquietante mondo notturno, l’oggetto destinato a sorreggere la testa, più suscettibile d’altre parti del corpo agli attacchi delle forze malefiche e quindi più bisognosa di protezione, era spesso decorato con divinità apotropaiche, tradizionalmente associate al sonno e alla veglia benevola sui dormienti: il nano Bes e la dea ippopotamo Toeri in primo luogo” (M. Carmela Betrò: “Geroglifici”). Sempre a titolo di curiosità, il termine sardo Ju, Juale o Juvale, si fa di regola derivare dal latino jugum (greco ζυγόν). Mi permetto tuttavia di far notare che, in termini geroglifici, i bovini assumevano il nome di “iwa”(jua), palesemente simile al termine ju o juale con il quale in sardo viene indicato il giogo. Non essendo un glottologo non sono in grado di addentrarmi in ulteriori considerazioni, salvo osservare che la parola egizia iwa precede di svariati secoli il latino iugum.