di Antonello Gregorini
Dopo quasi un decennio di recensioni, sopralluoghi, collazione di immagini di siti pressoché sconosciuti, geoportale e mediateca, ancora mi stupisco quando accedo, con l’animo, a un’ area archeologica appartenente alla Civiltà Sarda.
E in essa leggo grandiosità, bellezza architettonica, complessità sociale, note solo ai pochi addetti ai lavori, ma neanche a tutti. Sento e soffro dimenticanza, ingiustizia storiografica e identitaria.
Non dovrei invece sorprendermi, perché questa è la ragione ricorrente che spinge tanti di noi a darsi da fare, parlarne, urlare e combattere contro una oscurità ingiustificata.
Queste sono le foto del fantastico e unico Tempio Nuragico, o post nuragico, di Su Monte, in Sorradile.
Potrebbero parlare da sole ma, in realtà, ve lo assicuro, non dicono niente di ciò che è e di quel che si percepisce dal vivo.
Errata: che si percepirebbe se l’area fosse visitabile e costantemente aperta e accessibile. Un cancello installato su un muretto a secco e un importante sistema anti intrusione sono di guardia contro i vandali e i tombaroli, per cui le visite saranno giustamente ammesse solo per appuntamento.
Chi ha ripreso questo set fotografico ha avuto accesso probabilmente di lato, da valle, incidentalmente, dopo una giornata trascorsa nella ricerca di antunne.
L’edificio, secondo certi parametri di catalogazione, che condivido, dovrebbe definirsi post nuragico, in quanto definito come appartenente a quel periodo, pur fiorente, intervenuto dopo “l’età d’oro dei nuraghi’, quando i Sardi della protostoria smisero di costruire le magnificenti torri.
Già la semplice visita virtuale, tramite google earth, ci mostra una vasta area di qualche ettaro, su cui sono disposti i veri e propri resti del Tempio;
gli importanti conci non più in opera -disposti dagli archeologi ordinatamente ai lati dell’odierno viale di ingresso;
i resti della muraglia antica delimitante la pertinenza entro cui dovevano svolgersi i riti e l’accoglienza.
Sas cumbessias ante litteram dovevano essere disposte all’interno di quest’area, come a Santa Cristina di Paulilatino, Santa Vittoria di Sarri, Sant’Antonio di Siligo, Punta Unossi o Giorrè di Florinas, e tutti quei sacrari, oggi distrutti e sconosciuti, appartenuti a quel periodo storico post nuragico.
Parte del Tempio, la parte più preziosa e centrale, con il suo altare a vasca che integra un modello di nuraghe, è oggi protetta da una tettoia metallica di ponteggi innocenti.
Non ho trovato una descrizione scientifica soddisfacente, di facile, libero e digitale accesso, per cui tento da me e articolo una descrizione sommaria, comunque insufficiente.
L’edificio monumentale era realizzato in grandi conci isodomi’ finemente lavorati, incastrati nell’imponente muratura. Molti di questi hanno la conformazione a T, tipicamente usata per la realizzazione degli edifici più importanti, capaci di definire una tensione d’arco più stretta, incuneandosi nella parte interna della muratura a sacco, riempita con pietrame di media pezzatura, tipici del XI o X secolo a.C.
Due “stanze circolari” erano unite da una sorta di vestibolo trapezoidale, dotato delle sedute lapidee laterali. Della prima, orientata a est, restano oggi i soli filari a terra. Della seconda, a ovest, sono rimasti i filari sino a circa un metro e mezzo di altezza dal calpestio, ove, al centro, è presente la vasca.
Questo “cromlech”, circolo rituale post nuragico, non è chiaro se salisse sino a chiudersi a tholos o se semplicemente fosse coperto da assi lignee.
Dei nuraghi, tuttavia, possiede la triade delle nicchie interne perimetrali, più grande quella a ovest, più piccole e simmetriche quelle a nord e sud.
Siamo sul Tirso, il fiume sacro dei Tirreni, sfociante sulla antica Tzur, poi Tharros, per alcuni Tartesso. Da qui si vedono e si dovevano vedere una moltitudine di torri nuragiche, parte di quella metropoli rurale, diffusa sul territorio, che era la Sardegna nuragica… o post nuragica.
E solo su questo aspetto si potrebbe dire e ci sarebbe da dire molto, molto di più di quello che sin qui è stato detto.
Immagino i pellegrini che nei giorni indicati salivano a Su Monte, per le offerte e gli omaggi di rito, per celebrare, soprattutto, l’appartenenza comunitaria al popolo dell’Isola, ai suoi dei e alle credenze pagane legate agli eventi naturali, al trascorrere ciclico del tempo e dei ritmi vitali.
Non accontentiamoci di questa ignava dimenticanza della nostra storia.
Questo si sarebbe un peccato letteralmente mortale.
Antonello Gregorini