VISIONI DI SARDEGNA (Se una sera d’estate un cameriere)

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di Francesco Masia

 

Sui bastioni di Alghero, in un dopocena di Giugno, 5 giovani si confrontano davanti a un buon mirto sulla visione della propria terra.

Delle tre donne una è antropologa, una è storica e una è geografa; gli uomini sono uno archeologo e l’altro sociologo. Tutti vorrebbero diffondere una lettura utile alla maggior presa di consapevolezza, tra la loro gente, delle proprie risorse e del proprio potenziale.

(…)

Quando ognuno ha detto la sua, si fa avanti, presentandosi, un ex parlamentare europeo che, seduto a un tavolo vicino, aveva ascoltato tutto.

Dopo essersi impegnato per l’isola lungo i suoi mandati, la seguiva ancora con interesse, continuando a esplorarla, quando poteva, per conoscerne meglio le diverse regioni.

Sostiene di aver apprezzato ciascuna analisi, confessando di essersi sempre chiesto perché la Sardegna non riesca a battersi davvero per pesare di più entro l’Italia, per vedere ad esempio garantiti suoi rappresentanti in Europa; e perché la Sardegna non sembri convinta, nonostante i suoi numeri e le proprie risorse, di poter raggiungere una produzione di ricchezza tale da potersi rendere più pienamente autonoma o, volendo, anche indipendente.

Quindi tiene ancora la parola per esporre numeri, classifiche e considerazioni che dovrebbero appunto incoraggiare i Sardi

(…),

fino a concludere ringraziando tutti per essersi espressi in Inglese (ciò che gli ha permesso di capirli) e cercando di indovinare di quali parti della Sardegna fosse ciascuno, essendogli parsi i 5 accenti sensibilmente diversi.

Dopo qualche momento di incredulità e poi di imbarazzo, viene rivelato all’ex eurodeputato, cipriota, come ognuno avesse parlato di una realtà diversa, la propria, dei cui aspetti compatibili con la Sardegna ci si accorgeva ora.

Il cameriere, che ha dovuto portare un altro mirto perché tutti potessero brindare a quella particolare congiunzione (e alle loro patrie, alla Sardegna e ai Sardi), fortunatamente capisce bene l’Inglese e ha stimato che condividere questa cronaca possa risultare interessante.

 

 

A questo punto il racconto sarebbe finito, se non che il montaggio di questo testo é adattato, nella presente versione, al pubblico dei social, per cui ci sarebbe ora da fare un passo indietro per recuperare cosa sia stato detto da ciascuno.

Ad affrontare la stesura originale (che certamente potrebbe funzionare meglio se scritta da un autore più bravo, anche senza arrivare a Calvino), il lettore si troverebbe a passare prima in rassegna gli interventi di tutti e 6 i personaggi, per scoprire solo dopo (se non avesse già mollato tutto) quello che qui avete già letto: nessuno dei 6 è sardo e giusto l’ultimo, che non conosceva i 5 studiosi, ha parlato della Sardegna (convinto lo avessero fatto anche tutti gli altri).

Forse, però, meno dell’1% di quanti inizino a leggere arriverebbe alla chiave finale, digerendo i 6 interventi (nell’insieme, se non anche singolarmente, abbastanza pesanti; il genere non aiuta).

Inoltre il lettore ideale, giunto alla chiave finale, dovrebbe passare a rileggere tutto alla luce di quanto ha appreso, per verificare il filo rosso che unisce i 5 diversi territori alla Sardegna.

Invece in questa versione, se volete, potete pure andare alla fine per conoscere fin da subito anche di dove sia e di quale realtà parli ciascuno dei 5; vi resterebbe allora solo da seguire il filo rosso (sempre che ne abbiate voglia).

Una morale? Noi sardi dobbiamo conoscere la nostra storia e la nostra condizione, ma anche imparare a confrontarle con quelle degli altri; potremmo trovare situazioni simili e misurarci con risposte diverse.

Più terra terra: io sto (con il cameriere e) con il cipriota.

 

 

 

L’ANTROPOLOGA parla del suo impegno affinché tutta la sua gente arrivi ad avere ben chiaro come la propria identità sia giunta a risultare quasi completamente cancellata, per una politica di unificazione a suo tempo programmata dalle istituzioni centrali e già accettata, in generale passivamente, da quanti ne avevano di fatto sposato il disegno, allora inteso come progressista ed emancipativo.

E così sarebbe bene avesse consapevolezza, il popolo, di quali vicende storiche hanno portato a una certa distinzione tra “gente della costa” e “gente dell’entroterra” (questa più legata alla tradizione pastorale); e di quali altre vicende abbiano poi ridotto tutti nella condizione di combattere lo spopolamento e l’invecchiamento per l’emigrazione dei giovani, fino a dover considerare l’opportunità di cedere le risorse del proprio territorio (a chi abbia i capitali per sfruttarle) in cambio del necessario per le spese sociali e nella speranza che questo serva a rilanciare l’economia.

Tutti dovrebbero apprezzare come si sia iniziato a riconnettersi alla propria storia quando in tanti hanno cominciato a capire che non era “indigena” (del posto) solo la famiglia dei vicini, ma tale doveva dirsi anche la propria; e quando hanno iniziato a capire, in tanti, che essere “indigeni”, di quel luogo, non era una condizione migliore o peggiore di altre, semplicemente era la loro condizione, autentica e vera, qualcosa che non si cancella parlando d’altro; una responsabilità (né più e né meno come per chi sia “indigeno d’un altrove”) che ti resta comunque in capo.

A quel punto è iniziato il più deciso recupero della propria lingua (una lingua riconosciuta tale, nonostante i molti “dialetti”) e la maggiore ricerca di contatto con la propria storia, le proprie tradizioni, la propria cultura; il mobilitarsi, anche attraverso appositi eventi annuali, perché venga riconosciuta a esse adeguata dignità, per vivere tutto questo nel presente e per proiettare appartenenza e identità nel futuro, mantenendone fertile la trasmissione.

 

L’ARCHEOLOGO, benché si trovi tra persone che dovrebbero saper bene queste cose (gli è parso, del resto, che nemmeno l’antropologa si sia posta alcuno scrupolo), non rinuncia a sviluppare le seguenti considerazioni:

la nostra è una tra le isole maggiori del Mediterraneo, che intorno al II millennio a.C. fu il fulcro di una civiltà tra le più antiche e avanzate d’Europa;

nel corso dei secoli, poi, venne conquistata, tra gli altri, dai Romani e dai Bizantini (in una parentesi fu significativamente interessata dall’espansione delle Repubbliche Marinare);

solo in tempi relativamente recenti è divenuta Regione di un moderno Stato democratico, Regione che lungo lo scorso secolo, grazie a colui che viene ricordato come il padre dell’archeologia isolana, ha potuto riallacciare la propria storia a quelle sue radici perdute;

oggi quest’isola è riconosciuta una tra le principali mete turistiche, per via dei numerosi siti naturalistici e archeologici e per il particolare patrimonio culturale di cui dispone, espresso attraverso specificità linguistiche, letterarie, musicali ed eno-gastronomiche.

È giusto quindi che tutti si impegnino per la valorizzazione dell’originale Civiltà sviluppatasi sull’isola e da qui irradiatasi, che la si avverta patrimonio dell’umanità e che gli isolani se ne sentano gli eredi più intimi, quelli con maggiori responsabilità circa la sua tutela.

 

LA STORICA ha aspettato con pazienza il suo turno e si sente in diritto di cadere anche lei in qualche ridondanza. Lei proprio non sopporta che qualcuno valuti sminuita la grandezza trascorsa di una Civiltà in ragione del poco che la sua discendenza avrebbe contato dopo di allora.

C’è chi vorrebbe dire (lamenta) non possa aver nulla di cui gloriarsi realmente la regione che, per stare alle fonti (già importante tappa del processo di fondazione delle colonie fenice), vide i Romani calpestarne le insegne e dominarla.

Non sarebbe stata (sempre per qualcuno) una reale potenza visto, inoltre, come neanche attraverso la caduta dell’impero romano d’occidente conobbe ancora alcun riscatto, passando prima per una breve sottomissione ai Vandali e poi restando a lungo composta sotto l’impero bizantino.

Quando, al termine di questa fase, si trovò a fronteggiare le mire espansioniste dei califfati arabi, i resti delle sue architetture, segno della passata grandezza, andavano da tempo in rovina, senza più trasmissione di memoria.

Per venire all’oggi: dopo un periodo in cui è stata colonia d’un potente Stato europeo (intervenuto a sottrarla a un’allora netta influenza italiana), da questa regione si è originato uno Stato ora democratico.

La storica, in definitiva, sottolinea l’opportunità che la sua gente tragga proprio dall’insegnamento scolastico amministrato dallo Stato la consapevolezza del proprio rilievo internazionale, essendo i testi scolastici ben capaci di affrescare una Civiltà sui suoi antichi resti.

 

Il SOCIOLOGO vorrebbe che oltre l’impronta recente della speciale autonomia, oltre il secolare fenomeno del banditismo (da taluni inteso in chiave romantica), al di là (affondando nel passato) delle più o meno lunghe parentesi bizantina, gotica, vandalica, romana, cartaginese e fenicia, avvicinandosi quindi alle più antiche radici dei propri complessi megalitici, si investisse ancor più decisamente sulla identificazione con la mitica Tartesso e l’altrettanto mitica Atlantide, forti della posizione rispetto alle Colonne d’Ercole. Perché una cultura frutto dell’incrocio di tante diverse civiltà assimilate e rielaborate è già una ricchezza, ma radici in una civiltà originale e autoctona, unica e antichissima al punto di essere trapassata nei miti e nelle leggende, rappresentano un potenziale di identificazione, ispirazione e attrazione irrinunciabile. Se la realtà economica è ancora in svantaggio rispetto al panorama nazionale, per una posizione divenuta periferica rispetto ai circuiti economici internazionali e per il fallimento delle politiche industriali calate in un tessuto ancora largamente basato su agricoltura e allevamento (nonché sulla relativa ipertrofia del settore dei servizi), un deciso investimento su questa identificazione (con Atlantide e Tartesso) stimolerebbe ulteriormente l’industria turistica, con benefici per la destagionalizzazione e quindi per tutto l’indotto. Per questo il sociologo non storce il naso davanti agli hotel Tartesso, ai bar Atlantide, alle palestre Ercole o ai ristoranti Gerione (mitico re tartessico, nipote di quel Forco primo re di Sardegna e Corsica, e a sua volta nonno di quel Norace fondatore di Nora).

 

LA GEOGRAFA, infine, prende le mosse da quella che presenta come la banalità più grande: quello che abbiamo di speciale, dice, è anzitutto che viviamo su una grande isola, da una parte vicina alla grande isola d’uno Stato estero, dall’altra separata dal resto del Paese da acque internazionali.

Siccome la storia non può influenzare la geografia fisica, è senz’altro la seconda a condizionare la prima.

Così è sicuramente la geografia ad aver determinato un rapporto di stretta appartenenza all’isola dei suoi abitanti: la sua individualità naturale, come pure la sostanziale compattezza della sua forma, ci hanno portato e ci portano a riconoscerci come popolo distinto e unito (pur con le differenze di ambienti e di campanili); ben distinto addirittura dagli isolani vicini, cui pure, a guardare la carta naturale, si potrebbe crederci più strettamente legati (senza con questo voler dire che non dovremmo esserlo maggiormente); anche quando non vigevano i confini tra Stati che oggi conosciamo, la distribuzione di siti pur imparentabili presenta le due isole sempre significativamente distinte (e altrettanto la storia nota, pure quando la si sarebbe voluta congiungere in un regno sardo-corso, non ha mai camminato insieme).

Questa distinzione, “territoriale” (con i suoi particolari aspetti geologici e i riflessi su flora e fauna) e “umana”, ha portato a sviluppare modi propri, in certa misura peculiari (benché niente affatto impermeabili), in pressoché tutte le attività dell’uomo: quella che in una parola possiamo chiamare “insularità”.

Non risolveremo qui i problemi storiografici circa l’origine della nostra grandezza e, poi, le dinamiche della nostra caduta, fasi nelle quali questa insularità ha pesato evidentemente con segno diverso: diremo che si è dimostrato essa possa risultare una risorsa e, in condizioni diverse (avverse), un fardello.

Andrà detto, infine, che per noi é facile avvertire come nostra specialità, negativa, l’essere stati così a lungo dominati; questo, comprensibilmente, suggeriscono i capitoli dei libri di storia, le scansioni nei musei, i titoli di mostre e libri. Il fatto, però, è largamente comune a tanti territori mediterranei (e non solo); non è stato coniato dalle nostre parti il motto “o Franza o Spagna, purché se magna”. Quel che abbiamo di speciale sembra, allora, il fatto che a noi questa narrazione pesi di più. E potremmo interpretare dipenda dalla nostra consapevolezza di essere “altro”. Se sul continente essere annessi ora a chi arriva da oltre il fiume, ora a chi arriva da oltre la montagna, è allargare (almeno meno traumaticamente rispetto agli isolani; tutto è relativo) la propria appartenenza (o diluirla), la nostra insularità ci fa avvertire qualunque occupante come più nettamente estraneo, un teorico allargamento dell’appartenenza come qualcosa di comunque meno armonico, quasi restasse il mandato profondo che noi si rimanga appunto, almeno sotto la cenere, una nazione.

La nostra isola, pur con un’inferiore densità abitativa, può allora dirsi (almeno per i km²) una grossa Malta, che però ha avuto meno fortuna. Abbiamo in comune la civiltà megalitica e, insieme, saremo stati probabilmente parte dei Popoli del Mare (noi forse gli Shardana). Quindi abbiamo subito più o meno le stesse occupazioni, come è stato per tutte le isole del Mediterraneo.

Eppure la piccola Malta si è potuta emancipare dalla corona britannica, che era arrivata a doversi liberare da impegni diretti nei mostri mari, senza che la vicina Italia (83 km) potesse a quel punto permettersi di farla propria (tra il 64 e il 74, non erano più anni di invasioni nell’Europa occidentale). Mentre, quanto a noi, lo Stato (pur distante circa il doppio) non si è mai voluto disimpegnare, al punto da far finire in dramma la parabola di quello che comunque ricordiamo come il padre della nostra patria: nato nel centro-nord dell’isola nel ‘700 e già segnalatosi per i suoi meriti, lungo l’ultima decade del secolo giunse (ispirato dagli ideali della rivoluzione francese) a un viaggio verso il Nord della nazione che fu una vera marcia trionfale, con il popolo che lo acclamava come liberatore; poi i fatti gli  andarono contro e lo delusero, così che nel 1796 iniziò il suo esilio, fino alla morte dopo poco più di 10 anni nella capitale di quella potenza europea cui aveva offerto senza successo la sovranità sull’isola.

E noi siamo rimasti questa grossa Malta che non ce l’ha fatta.

 

L’EX EURODEPUTATO fa poi presente [oltre a quanto detto sopra] che la Sardegna ha più abitanti della Liguria e di altre 8 regioni italiane; più abitanti di 11 membri dell’Unione Europea (comunque più di 6, anche a non contare i 3 Principati, la Repubblica di San Marino e la Città del Vaticano), per cui se fosse uno Stato si collocherebbe dignitosamente al 153esimo posto sui 234 nel mondo. È vero che per densità di popolazione risulta solo al terzultimo posto tra le regioni italiane, ma il suo indice è comunque superiore all’Irlanda e pure alla media mondiale. Con le sue due Università potrebbe quindi ben produrre una classe dirigente adeguata a coprire tutte le necessarie caselle, come avviene senza clamori in tante realtà più piccole.

Solo in Sardegna, lamenta, capita che certuni possano convincersi, per una distorsione anzitutto antiscientifica, che la presa di coscienza di cui tutti e 5 avevano parlato debba essere frenata al fine di evitare pericolose derive nazionaliste.

E solo in Sardegna, per una pelosa sottovalutazione delle altrui mitografie (dell’importanza che ancora rivestono e per cui vengono ancora, nei giusti modi, sostenute), certuni possono pensare, sempre al fine di evitare pericolose derive nazionaliste, che non si possa guardare nemmeno con indulgenza a (non peggio fondate) mitografie proprie.

Conclude dicendosi stupito che in Sardegna queste analisi (per l’acquisito tabù di derive nazionaliste?) sembrino evitate dalla maggioranza degli stessi sardi, ma al prezzo (sembrerebbe) di vedere infiacchirsi la propria autostima, il proprio spirito di iniziativa e la stessa voglia di investire sulla propria terra, sulla propria cultura, sulla propria identità.

 

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Di dove sono e di cosa parlano i 5 studiosi:

l’antropologa, di Kautokeino, parla dei Samit (erroneamente più noti come Lapponi);

l’archeologo, di Candia, parla di Creta (e non di Giovanni Lilliu, ma del padre dell’archeologia cretese, Arthur Evans);

la storica, di Tunisi, parla di Cartagine;

il sociologo, di Cadice, parla dell’Andalusia;

e la geografa, di Corte, parla della Corsica (e non di Giommaria Angioy, ma del padre della patria corsa, Pasquale Paoli).

 

 

 

 

 

Come potrà indovinarsi, questo racconto non nasce tutto in una volta.

Qui di seguito le diverse occasioni in cui sono apparse le prime quattro parti (sulla pagina Facebook di Nurnet, con le discussioni che le hanno accompagnate).

L’ultima parte, quella della geografa, si è aggiunta ora.

 

 

Per la visione dell’antropologa samit/lappone (7/4/19):

https://www.facebook.com/506410149437714/posts/2214621501949895?d=n&sfns=mo

 

Per la visione dell’archeologo cretese (20/10/19):

https://m.facebook.com/story.php?story_fbid=2558352404243468&id=506410149437714

 

Per la visione della storica tunisina (17/11/19):

https://m.facebook.com/story.php?story_fbid=2625204230891618&id=506410149437714&anchor_composer=false

 

Per la visione del sociologo andaluso (occasione che riuniva le parti precedenti e in cui comparivano il mirto e l’eurodeputato; 16/6/20):

https://www.facebook.com/506410149437714/posts/3125278787550824/?d=n