Il nuraghe Appiu e il villaggio

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di Antonello Gregorini

L’area archeologica dell’Appiu sembra offrire tutto ciò che era necessario ad una nutrita comunità di cacciatori, raccoglitori del bronzo medio sardo. I pascoli per il bestiame, eventualmente posseduto; un laghetto invernale naturale, che offriva facile possibilità di reperimento dell’acqua anche nei mesi estivi; biomasse per le quotidiane attività in grande abbondanza;; il mare nelle vicinanze relative, con una irta discesa da compiere nella falesia basaltica. Così infatti qualche centinaio di persone vi si stabilì per secoli, costruendo manufatti che testimoniano un’organizzazione sociale di non poco per quel periodo preistorico. Le duecento capanne circondanti il villaggio offrono spazi funzionali apparentemente e fra di loro diversi. La capanna forno (così indicata dalla guida), con al centro un’emergenza lavica, dove presumibilmente si accendevano abbondanti falò tali da portare la pietra alle temperature sufficienti per la cottura di cibi (pane?). (foto in basso)

La cosiddetta capanna degli spiedi (in basso), dove sono stati rinvenuti due oggetti analoghi che gli archeologi hanno interpretato come porta spiedi e che nella rappresentazione grafica appare come il barbecue di uno dei tanti agriturismo della Sardegna.

La capanna del fuoco sacro (in basso), con un focolare lapideo al centro, realizzato con una pietra di materiale diverso, altamente resistente, proveniente da altri siti nelle vicinanze (in basso)

 

Gli isolati in cui erano fisicamente distinte le capanne sembrano essere quattro, disposti a contorno, e quasi simmetricamente, rispetto al nuraghe centrale che appare come l’edificio dominante, maestoso rispetto al resto. Come attestano i ritrovamenti di giare, macine, pietre per affilare, mortai, pestelli, coti, schegge di selce e ossidiana, falcetti in bronzo, vasi askoidi, spiane, tegami, fusi e pesi da telaio, oltre che abitazioni, le capanne erano luoghi di conservazione delle derrate alimentari e di svariate attività: cottura di vasi, lavorazione della lana, macinazione dei cereali. Non si escludono in alcuni casi anche funzioni cultuali. (da www.sardegnacultura.it)

Le parti scavate e parzialmente ricostruite del monumentale edificio, per caratteristiche e forma, possono dirsi uniche.

La torre principale era di considerevoli proporzioni, alta oltre 15 metri, sembra contenesse due tholos sovrapposte, la prima delle quali ben più alta e suddivisa in due ambienti, il secondo dei quali soppolcato tramite l’infissione di travi lignee infisse in appositi ed evidenti alloggi ricavati nelle spesse murature. Alla scala lapidea, che portava alla tholos superiore, incassata nella parete verso ovest, si accedeva da una scala lignea i cui gradini erano anch’essi incassati nella muratura e di cui si è trovato qualche risuduo mineralizzato negli scavi.

Un ambiente particolarmente articolato, quindi, che era rivestito da un bastione fasciante, alto circa la metà della torre centrale, nel quale si possono intuire quattro o cinque lati ai cui vertici erano poste delle torri ben più piccole le cui tholos appaiono ancora intatte.

Fra la muratura della torre centrale e la muratura del bastione erano ricavati dei corridoi stretti, a volte rinforzati con travi lapidee di mezza altezza, in cui ancora oggi si può camminare anche se, per ragioni di sicurezza, attualmente ne è viestato l’accesso.

Notiamo nel nuraghe due particolarità curiose, almeno per gli appassionati, sia della archeologia cosiddetta scientifica che quella più libera della narrazione. Esse si riscontrano nel cortiletto interno posto tra l’accesso cuspidato, a sud est sotto il bastione, e l’ingresso vero e proprio della torre centrale. Si noti che le murature sono coeve in quanto incastrate fra di loro da grossi massi longitudinali.  Il cortiletto appare come parzialmente coperto da una mezza volta che poggia sul muro esterno e va a chiudere sulla parte alta della torre centrale. Non vi è traccia, sembrerebbe, in altri monumenti nuragici, di analoghi cortiletti chiusi da volte superiori (Augusto Mulas)

Tuttavia, quasi al congiungimento della volta, sulla parete della torre esiste un oculo, in forma di protome taurina, analogo a quello diventato famoso del Nuraghe Santa Barbara di Villanova Truschedu, della cosiddetta luce del Toro. Esso appare volutamente così conformato quasi a indicare un fregio, come negli edifici di epoche successive si poneva lo stemma nobilare in testa ai portali.

In questo caso il fregio indicherebbe la manifestazione maschile (toro), o femminile (vacca), del dio che verosimilmente era adorato all’interno dell’edificio di culto della comunità nuragica.  A completare questa eccezionale particolarità vi è il fatto che la volta antistante, davanti all’oculo, non appare chiusa e si è portati a pensare che potesse essere in origine aperta, proprio a lasciar opportuno ingresso alla luce del sole verso l’oculo taurino.

Ipotesi fantastiche, certo, non scientifiche, ben poco vi è di realmente scientifico nella nostra archeologia, che però vogliamo tenerci liberi dal rappresentare ai nostri intelligenti e appassionati lettori

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