L’isola sacra

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di Giorgio Valdès

In un post pubblicato di recente sulla pagina facebook della nostra associazione, a commento di un articolo degli archeologi Giacomo Paglietti ed Augusto Mulas, si parlava della cura estetica con cui venivano edificati i nuraghi. Circostanza che lascia presumere una loro funzione sacrale, come simbolo dello spirito religioso che contraddistingueva la popolazione del tempo. E’ anche vero che non tutti i nuraghi sono stati realizzati ricorrendo in tutto o in parte all’opera isodoma o pseudo-isodoma e alle bicromie o policromie dei litotipi. Tuttavia, se è vero che questi monumenti assolvevano probabilmente a diverse funzioni, compresa quella fondamentale di controllo del territorio, sta di fatto che il loro significato principale era, con ottima probabilità, connesso alla sfera del sacro.

Una teoria analoga era stata a suo tempo avanzata addirittura da Alberto Ferrero della Marmora (1789-1863), il quale ipotizzava che “il Nur-hag fosse un monumento per il culto della tribù che avrebbe avuto le sue tombe nel recinto sacro vicino all’edificio, su cui si sarebbero svolte le cerimonie religiose…”

Per ritornare a tempi più recenti e come ricorda nei suoi scritti Paolo Valente Poddighe, Camillo Cinalli, Accademico per le scienze e le arti, in “Cultura Nuragica”, articolo a sua firma apparso negli anni settanta sul mensile “Frontiera”, scriveva: “ Il mondo nuragico era altamente civile e deve avere avuto una grande influenza sui popoli venuti alla ribalta della storia, nell’ambito dell’area mediterranea. L’ipotesi che la Sardegna fosse l’Isola Sacra dell’antichità, trova riscontro in più direzioni di indagine e si connette con altre interessanti ipotesi di storia della scienza ”. Si potrebbe aggiungere che il quadro d’insieme che appare sulla mappa dinamica geo-referenziata inserita nel sito della Fondazione Nurnet offre ulteriori motivi di riflessione, perché la densità dei nuraghi e la loro reciproca contiguità anche in riferimento a porzioni piuttosto vaste di territorio, rende poco credibile l’ipotesi del nuraghe-fortezza. Che senso avrebbe avuto, difatti, la realizzazione di più strutture fortificate a presidio e luogo di raccolta, in caso d’attacco, della stessa tribù? O peggio ancora, come si può ragionevolmente ipotizzare che in un fazzoletto di terra fossero presenti svariate strutture nuragiche appartenenti a clan differenti in perenne lotta tra di loro? O infine, come osservava giustamente Augusto Mulas, come si sarebbe potuto materialmente erigere un nuraghe, che per la sua realizzazione richiedeva anni e anni di duro lavoro e impegno costante, in un’ipotetica situazione di perenne assedio? E’ indubbio che l’argomento è ancora controverso, ma è altrettanto vero che se i nuraghi avessero avuto prioritariamente un ruolo cultuale, tesi razionalmente condivisibile, il loro straordinario numero e la loro distribuzione lungo l’intero territorio rafforzerebbe l’ipotesi che individua la Sardegna come quell’isola “dei Beati alle soglie dell’Oceano dai vortici abissali” di cui parlava Esiodo o ancora la regione nel Bell’Occidente “dove i morti erano seppelliti per rinascere e raggiungere la vita eterna” (M.C.Betrò “Geroglifici”).

Per concludere sono particolarmente interessanti le considerazioni di Salvatore Dedola, linguista e profondo conoscitore dell’isola, riportate nel suo libro “Monoteismo Precristiano in Sardegna”, da cui abbiamo tratto questi brani significativi:

“Ho scritto in varie parti che l’ipotesi (la certezza) –ancora tenacemente manifestata da molti- che i nuraghi fossero fortezze, non ha alcuna base logica né culturale. I ‘nuraghi’ in Sardegna sono (furono) almeno diecimila (secondo certi calcoli sarebbero stati addirittura 30.000), e come strumenti difensivi sarebbero un numero enorme. Accettarli come fortezze significa che i pochissimi Sardi dell’epoca (gli storici e gli antropologi suppongono non più di 300.000 anime) avessero costruito una torre marziale ogni tre persone. Il dato è incredibile, perché dobbiamo accettare l’assurdo che i Sardi – a gruppetti di 30- si facessero l’un l’altro una guerra permanente. La quale sarebbe illogica, perché in breve tempo i Sardi sarebbero dovuti sparire, mentre invece non sparirono. A questo assurdo si sommerebbe l’altro, che per erigere un nuraghe non bastano 30 persone (delle quali peraltro metà erano bambini, l’altra metà va spartita tra uomini e donne; e poiché le donne avevano altro da fare, ad erigere il ‘nuraghe’ avrebbero lavorato non più di 4-5 uomini: altri due uomini, e siamo a 7, li collochiamo tra i ‘senes’, che per definizione sono poco validi e nella società arcaica avevano altri compiti).

Presento un altro assurdo: ogni nuraghe copre mediamente un territorio non più ampio di 3 chilometri quadrati, che sarebbe lo spazio vitale di ogni ‘tribù’ di trenta persone…pari a sole trentacinque famiglie! Un assurdo affastellamento di torri ‘difensive’.

Infine va fatto un ragionamento decisivo: per annientare la ‘tribù’ avversaria non c’era bisogno di affrontarla in campo aperto e nemmeno di assediare la torre; bastava aspettare il vento, attendere che la ‘tribù’ entrasse a dormire nel proprio castello, accendere un falò a ridosso del nuraghe, ucciderli tutti per asfissìa.

I nuraghi non furono castelli ma altari, esclusi ovviamente i nuraghi-reggie (quale S.Antine, Arrubiu ecc.) ch’erano a un tempo reggie-altari-castelli. Il popolo Shardana non fu mai in guerra intestina d’annientamento, ma fortemente coeso. Riuscire a costruire una pletora incredibile di altari d’una perfezione architettonica assoluta presuppone una fortissima unità di popolo, e pure la gestibilità collettiva di pochi ingegneri messi in grado di circolare liberamente da un cantone all’altro. Gli Shardana erano così pii, che s’aiutarono l’un l’altro ad erigere queste poderose torri, che da quasi quattromila anni sfidano il vento e l’insipienza degli interpreti”.

E a proposito delle diverse funzioni a cui presumibilmente assolvevano i nuraghi, il professor Derdola scrive ancora che “…alla maggior parte dei ‘nuràghes’ è associato in toponomastica un aggettivo, un epiteto, un nome identificativo. E’ normale, perché anche i ‘nuràghes’ funsero (e ancora fungono, assieme a migliaia di altre eminenze caratteristiche) da coordinate territoriali, le quali consentono al pastore, al cacciatore, all’utilizzatore del territorio, di orientarsi e vagare in sicurezza…”.

In allegato: i nuraghi Alvu di Pozzomaggiore e Santu Miali di Pompu (entrambi citati nell’articolo di Paglietti-Mulas), rispettivamente nelle foto di Giovanni Sotgiu e Pino Fiore.