NAVICELLA DI TETI. RIAVVOLGERE IL NASTRO.

 

 

È sì autentica, però non può dirsi datata. 

Le stime al riguardo andrebbero oggi dal IX al IV secolo a.C. 

Ma per l’epigrafia? 

di Francesco Masia

Chi scrive ha osato pubblicare sul tema della scrittura nuragica, da non archeologo, un piccolo libro (2017, grazie a Condaghes), perché da tempo molti fatti necessitavano di essere raccolti e presentati ordinatamente.

Mi ero impegnato a usare l’indicativo per quello che si presentava oggettivo, dandovi più spazio che alle ipotesi e agli studi ancora dibattuti, trattati con gli opportuni condizionali. Non volevo pubblicarlo senza che un archeologo garantisse che la sua disciplina vi era rispettata, per cui sarò sempre molto grato alla Dott.ssa Caterina Bittichesu.

Un auspicio alla fine del libro era che non dovessi sentirmi trascinato a scriverne un secondo, ossia che prendessero a scriverne, meglio, coloro che ne hanno adeguato titolo.

Invece mi è già corso l’obbligo di tornare sull’argomento per correggere un indicativo mal riposto; e oggi, dopo l’occasione di più attente riletture e attraverso verifiche sui documenti d’archivio, direi d’essere arrivato a mettere insieme una spiegazione probabilmente completa circa quell’errore.

Certo, è strano debba essere proprio io a farlo presente, ma tant’è.

A premessa del libro avevo proposto la parabola del radiologo e dell’intruso, in cui un Professore di matematica si impegna a comunicare con lo specialista nel merito dell’esame in atto sulla madre; l’insegnante interviene non senza ragioni, ma per il radiologo è essenzialmente uno scocciatore.

Ora è come se quell’insegnante, a 9 anni da quell’esame, scoprisse che i curanti avevano accolto e hanno mantenuto senza riserve una diagnosi,  diversa da quella che avevano proposto, derivata dalla malintesa interpretazione d’un refuso sul referto radiologico; quando però, con quel dato esame, quella diagnosi nemmeno si sarebbe potuta porre.

Quello che ero arrivato a capire e a condividere, nel Febbraio 2020

(Una verità -in meno- sulla navicella di Teti –https://m.facebook.com/story.php?story_fbid=2860155260729846&id=506410149437714),

era che la navicella, al contrario di quanto ritenuto dal 2013 in tutta la comunicazione specialistica (invero molto poca) e non specialistica (perciò inevitabilmente anche nel mio libro),  è sì autentica, ma non può dirsi avere una datazione scientifica:

l’esame su un reperto dal contesto di ritrovamento sconosciuto poteva essere ed è stato solo un esame di autenticazione, in grado (appena) di escludere un falso moderno;

la datazione orientativa del reperto resta perciò appannaggio dei raffronti stilistici proposti dai ricercatori.

Allora mi ero fermato a credere che la stima IX-VIII, invalsa dal 2013, derivasse perciò da una motivata revisione da parte degli archeologi rispetto alla loro prima stima (VIII-VI), ma a guardar meglio mi sbagliavo: ancora non coglievo che non sono stati portati motivi a sostegno di una revisione rialzista (IX-VIII), mentre al contrario è riconoscibile come quella creduta datazione abbia spiazzato e sorpreso, quindi abbia portato a inseguirla, ossia a cercare reperti raffrontabili (a quel momento sconosciuti a chi ne avrebbe scritto) che la potessero giustificare.

Per quanti non arriverebbero alle conclusioni di un articolo che muova da lunghe premesse e racconti ogni passo, questa è in breve la spiegazione cui sono giunto:

dopo che nel 2012 si scrisse della stima VIII-VI secolo a.C. (nel caso di autenticità del reperto), nel 2013 si giunse a inviare la navicella al laboratorio con una proposta di datazione non maggiormente precisa (non si passò da 3 a 2 secoli) e nemmeno più “antichizzante” (non si “rialzò” fino al IX, appunto), bensì più ampia (da 3 a 5 secoli) e più “ribassista”, VIII-IV secolo (questo, si direbbe, solo per non rendere troppo scottante il reperto nel caso fosse risultato autentico);

è stato allora per un errore materiale (in sé banale, ma stupefacente nelle non sventate conseguenze) che nel laboratorio si è compilato il referto del positivo esame di autenticazione riportando sulla scheda, alla voce “datazione proposta” (dagli archeologi, si intende), IX-VIII; quindi per un fraintendimento degli archeologi quell’intervallo è stato interpretato come il responso della tecnica, che andava a correggere la loro proposta.

Questa ricostruzione dei fatti, non facile da ipotizzare e ammettere finché non la si riscontri sulle prove documentali, si è resa possibile grazie a una normale “Richiesta di accesso civico generalizzato” all’archivio della Soprintendenza di Sassari, doverosamente accolta dall’ufficio competente e soddisfatta proprio dalla Dott.ssa Nadia Canu (la funzionaria archeologa della Soprintendenza per le province di Sassari e Nuoro che ha provveduto a registrare la navicella nel 2012, a esporla con un pannello esplicativo nel Museo di Teti, a indirizzarla alle analisi disponibili, a presentarla in un contesto nazionale con una relazione poi pubblicata tra i relativi atti congressuali, e a discuterla in un paio di conferenze a Cagliari e a Sassari; tutto questo è comprensibilmente non poco dal punto di vista della Dott.ssa Canu, anche se per l’onda che non si è sollevata nello stagno dell’Accademia appare ancora, in assoluto, qualcosa di largamente inadeguato rispetto all’interesse da riconoscersi al reperto).

Questi i numeri di protocollo degli atti principali:

3363/2012 (la relazione con la prima  registrazione della navicella);

6472/2013 (il testo di accompagnamento della navicella al laboratorio per l’autenticazione, a Milano, con la datazione proposta VIII-IV);

9039/2013 (la risposta del laboratorio: reperto autentico, con datazione proposta IX-VIII).

Così mi ha risposto il 15 Luglio il laboratorio L’Arcadia, interpellato sui fatti:

“(…) Relativamente all’esame eseguito il 18/09/2013, ci spiace per il disguido e non sappiamo come possa essere stata indicata una datazione presunta così differente da quella proposta.

Stupisce il fatto che non ci sia stato segnalato l’errore subito dopo l’invio del materiale”

(non avrei scommesso sull’ottenere direttamente una risposta dal laboratorio, cui mi sono presentato come “studioso del tema ‘scrittura nuragica’”; immagino il cospicuo numero di anni trascorsi abbia fatto avvertire l’oggetto della richiesta ormai materia pubblica, non più un’intromissione indebita nel rapporto tra laboratorio e committente).

Per quello che può valere, ritengo debba intendersi che l’ultima proposta di datazione, VIII-IV (quella che si sarebbe dovuta leggere sul referto del laboratorio), vada a questo punto almeno corretta (attese valutazioni epigrafiche a parte) in IX-IV, dove gli estremi hanno diversa origine: involontaria il IX e, si direbbe, arbitraria V e IV. Di fatto gli archeologi che si sono pronunciati sulla datazione IX-VIII (prendendola, appunto, per “scientifica”, senza il sospetto d’un errore alla sua origine) si sono impegnati ammirevolmente e con successo a trovare reperti anche del IX secolo accostabili alla navicella (quantomeno accostabili al suo motivo decorativo, “a onda corrente”, considerato guida per la datazione):

la Dott.ssa Canu nella relazione congressuale del 2016

(https://www.academia.edu/40768759/Il_pugnale_ad_elsa_gammata_nella_civilt%C3%A0_nuragica_Nuove_attestazioni_iconografiche_da_contesti_santuariali)

ha indicato il raffronto con una navicella fittile dal nuraghe Palmavera, stimata al Primo Ferro, recante anch’essa sul fianco un motivo decorativo ripetuto (seppure in quel caso si trattasse di cerchielli e non di onde correnti);

e soprattutto il Prof. Zucca (Archeomeet 2019) si è impegnato a trovare, tra i materiali (non sardi) pubblicati in letteratura, onde correnti fin villanoviane che sono quindi più IX-VIII di quelle, successive (più recenti), citate nella suddetta relazione congressuale dalle colleghe Nadia Canu e Antonella Fois (anche il Prof. Zucca ha così inseguito quella datazione, risultando accoglierla come pervenuta da una fonte superiore –da una Termoluminescenza di datazione– e non dal semplice e sempre confutabile parere dei colleghi ricercatori; fino a concludere “secondo me si tratta di un documento tipicamente nuragico, della Prima Età del Ferro, inscritto” e “ben datato con la Termoluminescenza”).

Resta comunque integralmente valido quello che la stessa Nadia Canu scrisse nel 2012: “se il ritrovamento di questo reperto fosse avvenuto durante una campagna di scavo regolamentare, sarebbe stata una scoperta eccezionale (segni grafici incisi su un supporto nuragico!). Invece, viste le circostanze, è necessario procedere molto cautamente.”

Ora, da che l’autenticità del reperto è stata provata (2013) esso vale in ogni modo, a prescindere dalle modalità del suo ritrovamento, quanto altri rinvenuti durante regolamentari campagne di scavo (non per tutti le stratigrafie apportano maggiore chiarezza); e per i segni grafici incisi su un supporto nuragico, nonché per la presenza tra questi di un segno a pugnaletto a elsa gammata (pugnaletto nuragico) che non si conosce in nessun alfabeto antico, deve essere considerato eccome una scoperta eccezionale.

Sempre la Canu nel 2016, nella discussione sulla sua relazione, così commenta: (la navicella) “l’abbiamo anche sottoposta a numerosi semitisti che, in sostanza, non sono riusciti, non dico a decifrare, ma neppure a capire se si tratta di scrittura e tantomeno il significato (…).” Nessuno di questi semitisti avrebbe perciò accettato di scriverne: questo dovrebbe suggerire che non si tratterebbe di scrittura così recente e che si dovrebbe insistere perciò ancora presso altri epigrafisti, che quantomeno accettino di intestarsi il proprio “non possumus”. Di questi passi indietro degli epigrafisti consultati, infatti, mi è stato risposto non esservi traccia in archivio: si è trattato di contatti personali, cui si può ritenere di dover riconoscere ancora riservatezza; col risultato però che tutto, riguardo all’ambito epigrafico, resta ancora impalpabile.

È come se l’ormai anziana madre dell’insegnante di matematica (quello della parabola) necessitasse di accertamenti su un organo che di fatto, in assenza di specialisti disponibili, si continua a trascurare.

Quanto al malinteso sulla termoluminescenza d’autenticazione, registriamo un’altra prova del fatto che tutti possono (possiamo) sbagliare, in tutti i campi e, diciamo pure, a tutti i livelli.

In questo caso però è davvero rimarchevole siano trascorsi “9 anni 9” senza che il sistema abbia saputo

correggersi da sé; preoccupa più la salute del sistema, dunque, che il particolare operato di qualcuno.

Perché ci sono archeologi che segnalano reperti presenti nei magazzini, li fanno esaminare, si impegnano a farne parlare e rispondono subito a richieste di accesso agli archivi; e, d’altra parte, archeologi che avrebbero consigliato loro di evitare, di prendere tempo. L’ultima cosa che si vorrebbe ottenere con questo articolo è che i primi finiscano per pensare sia meglio iniziare a pensarla e a condursi come i secondi.

Quel che è sicuro è che risposte non chiare, argomenti non sviluppati e trascurati, verifiche non condotte, importanti temi di discussione non raccolti, sospingono quanti seguono la materia verso la ricerca di fonti alternative, appresso a dietrologie, con una crescente sfiducia verso le figure istituzionali; tutte cose che in un sistema dal funzionamento più lineare semplicemente troverebbero assai poche ragioni per svilupparsi.

Quindi, sì, ci sono errori, sviste, omissioni, probabilmente omertà, o malintesa “carità di patria”; ma soprattutto, come detto, c’è una preoccupante inefficienza e inefficacia nel mettersi in discussione e nel correggersi, a livello sistemico.

Rivolgo un pensiero all’imminente incontro di Archeomeet, Sabato 23 Luglio a Villanovaforru, con tema la comunicazione nel campo dell’archeologia e della cultura: sottoporrei ai relatori anche questo caso, direi significativo.

E concludo con questa riflessione:

in un contesto normale, alla autenticazione sulla navicella sarebbero seguiti a ruota articoli scientifici e analoghe analisi (minimo di autenticazione) almeno su altri reperti fittili con segni di scrittura;

in un contesto accettabilmente spiazzato e distratto, certe proposizioni dubbie si sarebbero chiarite nel volgere di poche settimane, tagliando l’erba al generarsi di ipotesi che nessuno avrebbe avuto motivo di coltivare;

nella nostra realtà, chissà quando si prenderà tutti atto che le cose (salvo convincenti dietrologie che mi stiano sfuggendo) sono andate come sopra –per cui, nel sistema, ci si dovrebbe porre qualche domanda.

P.s.: dovrei dire che la Dott.ssa Canu ha realizzato come me, lungo la ricerca d’archivio in cui mi ha accompagnato, la dinamica dei fatti suesposti; ne avrebbe certamente dato comunicazione con i tempi delle istituzioni, meno snelli dei nostri. Non posso dire come si regolerà ora.

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Qui l’articolo può dirsi finito per quelli che, bene edotti sulle sue premesse, avranno potuto fruirne senza difficoltà.

Per quanti invece necessitino di maggiori basi, o di un ripasso, si potrebbe dire molto di più (senza nemmeno la pretesa, in questa sede, di essere esaustivi).

A oggi sono noti oltre 15 reperti fittili (d’argilla) con segni interpretabili come scrittura e almeno ipotizzabili nuragici

(in appendice B l’elenco; elenco, si intende, non “approvato” dall’Accademia, in seno alla quale la più aperta tra le diverse posizioni rimanderebbe a studi… che intanto non si fanno).

Tra questi reperti, la navicella di Teti è il primo e resta l’ultimo (da 9 anni) a essere stato sottoposto alle indagini di laboratorio disponibili; da qui la sua centralità nella discussione.

Dalla comunicazione della sua autenticità si è registrato nell’Accademia un silenzio pressoché assoluto, che si direbbe imbarazzato, o quantomeno imbarazzante.

L’imbarazzo della Soprintendenza si coglie anche nell’innegabile fatto che pure dopo il 2013, tra decine di mostre (in Sardegna e fuori) ispirate dai reperti raccolti anzitutto nei musei sardi (mostre che finiscono sui giornali e i telegiornali), non un curatore abbia pensato o ottenuto di reclutare la navicella di Teti –non “di metterla al centro”, appena “di reclutarla”.

Il colmo, forse solo per la mia sensibilità, nell’occasione di un bellissimo convegno del 2017, ad autenticità comunicata da 4 anni e da un anno presentata a congresso, oltremare; un convegno dal titolo calibrato, “Il Bronzo Finale in Sardegna” (circa 1.150-950 a.C.). La navicella, che veniva ritenuta giusto del 900-700 a.C. (Primo Ferro), per una manciata d’anni era mantenuta lecitamente fuori. In questo modo neutro, innocente, anche quel giorno l’alta e nutrita rappresentanza di archeologi sardi presente ha potuto continuare a ignorare il “reperto eccezionale”, a non citarlo nemmeno; nonostante fossero tutti (come non è affatto consueto) proprio a Teti, nella sala esattamente sotto la navicella

(non so… come convocare i massimi esperti su Piero della Francesca proprio nei Musei Civici “Madonna del Parto” a Monterchi, dov’è l’affresco che il pittore e matematico realizzò a 44 anni, e intitolare il convegno ai suoi primi 40 anni, o ai suoi ultimi 30; con l’aggravante, a compensare l’effettiva “ricchezza di Bronzo Finale” intorno a Teti, che per la comprensione della Madonna del Parto non ci sarebbe troppo bisogno di parlarne ancora, mentre per quella della navicella di Teti magari sì).

Così, insomma, si è proceduto fino a oggi.

 

Per spiegare la materia, complessa, è utile considerare tre distinti capitoli.

Il primo riguarda la storia del ritrovamento della navicella, il fatto che ufficialmente sia nota alla Soprintendenza solo dal 2012: è solo allora che la Soprintendenza ne prende formalmente atto, ma il reperto era rimasto per anni dove in tanti lo avevano visto, nei locali del Museo: già prima dell’interrogazione parlamentare del Gennaio 2011, in cui si chiedeva dove fosse finita la navicella con altri tre reperti archeologici sardi scomparsi alla vista del pubblico

(quesito cui appunto il Sottosegretario del MIBACT aveva dovuto rispondere in aula che della navicella le Soprintendenze non avevano mai avuto notizia; in appendice A questa risposta),

il reperto era stato già esposto nel Museo di Teti, mostrato a visitatori e da questi fotografato

(posso dire dell’archeologa Caterina Bittichesu, che l’aveva potuto vedere insieme ai membri d’un’associazione culturale di Macomer; e delle foto che il Prof. Gigi Sanna poté pubblicare il 17/12/2009; Prof. Sanna che ne sentiva parlare dal 2005… https://monteprama.blogspot.com/2013/12/auguri-da-teti-firmato-nur-he-ak-he-aba.html?m=1).

Questa versione ufficiale va a escludere possa conoscersi il luogo di giacitura della navicella; e se la Soprintendenza avesse mai potuto sapere da dove sia saltata fuori, non l’ha mai detto.

 

Il secondo capitolo riguarda quanto poco è stato pubblicato (nella letteratura specialistica) degli studi e degli esami condotti sulla navicella: dopo il testo di presentazione del reperto nel museo (2012) e dopo la sintetica comunicazione orale dell’autenticità provata dalla termoluminescenza

(si era alle Cortes Apertas di Teti, Comune finanziatore, il 30/11/2013),

ha avuto la fortuna di approdare alla pubblicazione (tra gli atti del congresso, arrivati nel Dicembre 2018) solo la prima presentazione, avvenuta in una cornice di studi etruschi nel Settembre 2016, tra Toscana e Lazio, dove la navicella fu considerata tra altri reperti accomunati dalla raffigurazione del pugnaletto nuragico a elsa gammata –in una relazione delle archeologhe Nadia Canu e Antonella Fois.

Ulteriore fortuna, gli atti di questo congresso offrono, insieme alla relazione, la discussione che ne è seguita. L’atteso articolo scientifico espressamente dedicato alla navicella, annunciato nel 2013 per il 2014 e altre volte dato per imminente, di fatto non è mai apparso –e da un po’ non se ne sente nemmeno più parlare.

Mi risulta che l’unico altro testo su cui poter cercare ulteriori lumi, pubblicato giusto quest’anno

(Archeomeet, Incontri e Scontri sull’Archeologia Sarda, a cura di Giacomo Paglietti e  Maurizio Onnis, Ed. Grafiche del Parteolla),

sia la trascrizione del confronto tra il Prof. Luigi (Gigi) Sanna e il Prof Raimondo (Momo) Zucca a Villanovaforru per la 2ª edizione della rassegna Archeomeet (2019): il Prof. Zucca vi si é diffuso abbastanza sulla navicella di Teti, muovendo dal testo pubblicato dalla Dott.ssa Canu e recependo senza meno la “datazione” IX-VIII

(qui il video in cui, dal minuto 35, si affronta il tema, a partire da una precisa e sintetica analisi del contesto avanzata dal moderatore, il giornalista Giorgio Galleano:

https://www.facebook.com/watch/live/?ref=watch_permalink&v=653784241755147).

Sarà perciò solare che riferirsi alle Dott.sse Canu e Fois e al Prof. Zucca non dipenderà affatto da alcuna questione personale; al contrario, viene dal merito d’essere loro i soli specialisti ad aver considerato la navicella.

Solo a margine, trattandosi di comunicazione personale di prima mano (sì affidabile, ma) la cui fonte non sono autorizzato a rivelare, aggiungo (per quel che in tal modo vale) che il suddetto Comune di Teti, finanziatore delle indagini (ne avremmo altrimenti saputo, quando?), fu subito vivamente sconsigliato dal pubblicizzare la navicella e i suoi risultati; il compito sarebbe stato svolto dalla Soprintendenza, che avrebbe saputo come meglio procedere data la delicatezza della materia –abbiamo visto.

Il terzo capitolo concerne appunto la termoluminescenza (TL), l’esame condotto sui reperti (soprattutto) fittili che mira a determinare il tempo dalla loro (ultima) cottura, quindi il periodo della loro produzione. La TL, in sintesi (e senza entrare nei dettagli della tecnica), può applicarsi a due diverse condizioni, portando a due tipi di responso differenti: TL di autenticità (per reperti di cui non sia nota l’esatta provenienza) e TL di datazione –per reperti dei quali, al contrario, l’esatta provenienza sia nota.

Se si sottopone a TL solo il reperto che si vuole indagare, l’esame potrà giusto fornire un generico responso di “autenticità”, in quanto si ferma a un intervallo temporale così ampio (l’incertezza della misura resta così alta, intorno al 20%) da poter appena distinguere il falso moderno (la produzione recente) dal genericamente antico –che sarà semplicemente giudicato “autentico”.

A questo quindi necessariamente si limita  la TL condotta su reperti trovati “fuori contesto”, di cui cioè non si conosca il luogo di provenienza. Per essi, quando giudicati autentici, varrà la stima di datazione (non scientifica, non archeometrica) avanzata dagli archeologi sulla scorta dei possibili raffronti stilistici.

Per giungere invece a una vera e propria datazione (cioè all’indicazione scientifica, di laboratorio, d’una finestra temporale abbastanza ristretta), è necessario la TL possa condursi anche su un campione del terreno nel quale il reperto giaceva. Grazie a questo raffronto, l’incertezza dell’analisi si riduce (fino al 5%) e la stima del tempo dalla cottura si restringe a un intervallo che può considerarsi la datazione del reperto.

Ricapitolando: una vera TL di datazione (che cioè non sí limiti a sancire l’autenticità o meno del reperto, ma lo inquadri affidabilmente in un intervallo di pochi secoli) necessita di una provenienza sicura del reperto.

 

La dinamica tra questi tre capitoli ha reso particolarmente confuso il quadro creatosi, prima di giungere ad accertare (e ad accettare) che l’ipotesi lontanamente ammissibile di un errore materiale nella scrittura del referto di autenticazione (errore evidentemente non sospettato da quanti sulla navicella hanno scritto, quindi non verificato e non riconosciuto) fosse invece quella corretta.

Di sicuro l’analisi attenta degli scritti prodotti portava a capire che la datazione IX-VIII non derivava dalle stime degli archeologi, che anzi si trovavano a inseguirla con difficoltà (cioè cercavano di trovare reperti di quella stessa antichità accostabili alla navicella, ad allora non già citati), continuando a parlare con sostanziale ambiguità di autenticazione e insieme di datazione, al punto che poteva pensarsi una datazione si fosse in qualche modo effettuata.

Ma così non è stato.

Non perderei infine l’occasione per ricordare un’altra volta, in argomento, come il testo del 2012 che nel Museo di Teti accompagna i visitatori ad apprezzare la navicella é sempre lo stesso: nonostante il suo aggiornamento sia stato “dal basso” più volte sollecitato, a oggi non è stato rivisto e continua perciò a presentare il reperto come possibile falso… (una prece, di nuovo).

L’auspicio ora è che si vada oltre l’ottica della contrapposizione (mi affido all’ordine alfabetico) tra Accademia e appassionati, dannosa e assurda; quando, pur nel rispetto dei titoli e dei ruoli, dovremmo riconoscerci tutti (è il caso di dire) sulla stessa navicella.

Appendice A

Qui il pertinente stralcio dalla risposta del Sottosegretario del MIBACT, Francesco Maria Giro, all’interrogazione parlamentare dei Senatori Piergiorgio Massidda e Luciana Sbarbati (20/01/2011):

“Per quanto riguarda la Navicella nuragica fìttile da Teti devo riferire che l’immagine trasmessa dai promotori della petizione è risultata assolutamente incomprensibile agli archeologi delle nostre Soprintendenze che, d’altra parte, non hanno alcuna notizia in merito al ritrovamento ‘nei pressi di Teti’ di una navicella nuragica ‘con evidenti segni di scrittura’. Se un ritrovamento è stato fatto potrebbe essere stato effettuato al di fuori delle ricerche ufficiali e da persone non autorizzate. Assicuro, a tale proposito, ogni attività utile al recupero del reperto.

I reperti citati dai promotori non recano peraltro alcuna traccia di scrittura di età nuragica anche perché, come ben esplicitato in tutti i testi scientifici sulla civiltà nuragica, questa non ha mai conosciuto la scrittura.”

Da notare che nel complesso della risposta all’interrogazione parlamentare si dichiarava di non conoscere due dei quattro reperti citati dai promotori, ma lo stesso si concludeva accomunandoli tutti (in una sentenza che sarebbe già ardita per i due reperti conosciuti), con uno slancio totalmente fuori luogo per un Ministero della Cultura: “i reperti citati dai promotori non recano peraltro alcuna traccia di scrittura di età nuragica” perché i libri ci dicono che questa non esiste. Guardando ai libri, non troppi anni fa il Viceministro avrebbe concluso che le ancore in pietra sui fondali intorno alla Sardegna non possono affatto attribuirsi ai Nuragici perché questi, stava scritto, non navigavano (ora si scrive pacificamente il contrario). E, sempre tra i libri, il Viceministro inizierebbe a trovarne che invece la “scrittura nuragica” la contemplano: escludendo i titoli di autori etichettabili come “studiosi indipendenti”, rimangono pur sempre i volumi della già nominata archeologa Caterina Bittichesu (Culto degli antenati nell’Età del Bronzo in Sardegna, 2017) e dello storico (e paleografo) Francesco Cesare Casula (Storia di Sardegna, 2017, nel primo degli 8 volumi).

Come fonte per la risposta del Sottosegretario, nella difficoltà di trovarne altri, ricorro a questo link, che oltre a offrire la risposta integrale all’interrogazione ha in realtà il pregio di illustrare bene il clima purtroppo creatosi intorno alla materia:

https://exxworks.wordpress.com/2011/01/24/che-lo-sforzo-sia-con-voi-falsita%E2%80%99-sforzi-e-scoregge-dell%E2%80%99armata-shardaleone/.

Appendice B

Qui l’elenco degli altri reperti fittili, almeno ragionevolmente scritti, nuragici o ipotizzabili tali

  • Cocci di Orani (consegnati e dispersi)
  • Coccio di Mogoro (consegnato e disperso)
  • Coccio dal nuraghe Alvu (Pozzomaggiore)
  • Coccio di Selargius
  • Coccio di Allai
  • Coccio di Cossoine (non consegnato)
  • Fusaiola dal nuraghe Palmavera (Alghero), Museo Sanna
  • Vaso di S’Arcu ‘e is Forros
  • Vaso dal Museo Sanna
  • Frammento di vaso da Sant’Imbenia (Alghero)
  • Frammento di askos nuragico da Nuraxinieddu, Oristano
  • Frammento di olla nuragica da Santu Antine (Genoni?)
  • Fiasca del pellegrino da Ruinas (Oliena)
  • Secchiello nuragico da Monte Olladiri (Monastir)
  • Coppa iscritta da Sant’Imbenia (Alghero)
  • Sigillo da Sant’Imbenia (Alghero)
  • Brocchetta piriforme con svastica e lettere (¿località di provenienza e attuale?)
  • Vaso dal nuraghe La Prisgiona (Arzachena)
  • ¿Mano dal porto di Cagliari?
  • ¿”Falsi” di Allai?

Oltre a pochi reperti bronzei, considerati assai difficilmente databili, quelli molto più numerosi sono i reperti litici (in pietra), non databili… salvo, fortuitamente, le incisioni lineari (quindi non iscrizioni alfabetiche) di Sa Mandra Manna (Tula), per gli archeologi “istoriazioni” (raffigurazioni di immagini relative a fatti) risalenti a (non si sa quanto) prima del 1.500 a.C.

(https://www.nurnet.net/blog/la-scrittura-in-sardegna-come-la-navigazione/?fbclid=IwAR0o3Mo-Mhy32BVZwnhkoN2vNpvOwBRL6MAA2aL-CGeD42GknoUogpZV5GY).