di Nicola Manca “il non adirarsi quando si deve è peccato, merita rimprovero, ma l’adirarsi più del dovuto è un doppio peccato, merita castigo…” Così San Bernardo da Chiaravalle parlava dell’ira.
Ma cos’è esattamente questo vizio? Potremmo definirlo come un moto impetuoso, un turbinio dell’animo e un bisogno di reazione contro una contraddizione, contro ciò che contrasta con le nostre attese e che percepiamo come situazione sfavorevole o ingiusta. Assieme alla superbia e all’invidia rappresenta la terza forma di falso amore che offusca la vista e rende irrazionali. Sebbene vi siano poeti e cantori che hanno dipinto l’ira con una sfumatura positiva – quali l’ira di Dio intesa come giustizia divina o l’ira funesta del Pelide Achille – è un sentimento nichilista e rancoroso che se non manifestato con un’esplosione di rabbia rischia di provocare un’implosione di chi si è sentito danneggiato. Nessuno, né Dio nei confronti di Abramo, né Cristo verso i mercanti del tempio giusto per citare chi dovrebbe essere “infinitamente buono”, si è mai sottratto a questo sentimento. Aristotele nell’Etica a Nicomaco la descriveva cosi: “L’ira è necessaria: senza il suo apporto – senza che essa invasi l’anima e infiammi il coraggio – non è possibile affatto affrontare alcuna battaglia; ma bisogna farne uso opportuno, ponendola al nostro servizio e non viceversa […] Arrabbiarsi è facile, ne sono tutti capaci, ma non è assolutamente facile, e soprattutto non è da tutti arrabbiarsi con la persona giusta, nella misura giusta, nel modo giusto, nel momento giusto e per la giusta causa". E’ la forma nobile di Ira – quella aristotelica – che ha fatto muovere i primi passi a Nurnet. Lo sdegno per un patrimonio mai valorizzato e mai fatto divenire la nostra unicità: non eravamo noi i nichilisti! Col tempo la Fondazione diventa più matura e la razionalità ha preso sempre più il posto del furore: tuttavia il moto impetuoso non si è fermato e difficilmente lo farà.
“Sono sempre più sincere le cose che diciamo quando l’animo è irato che quando è tranquillo”. Marco Tullio Cicerone