Scientificità e censura del fantarcheosardismo

di Antonello Gregorini

Immagine di Mauro Aresu, ripresa all’interno del nuraghe Ola nel giorno del solstizio.

 

Vi è un numeroso gruppo di persone che assegnano potere taumaturgico (miracoloso, portentoso, prodigiosoi) all’evento del fascio di luce che illumina specifiche parti di un nuraghe.

Conosciamo l’evento della “luce del toro” e sappiamo che in tanti il giorno del solstizio si recano a visitare i nuraghi in cui si verifica.

Di recente ho sentito un noto studioso, divulgatore e studioso dell’architettura e del paesaggio della Sardegna antica, affermare pubblicamente che “i nuraghi sono costruiti all’incrocio dei fasci energetici che abbracciano il pianeta. L’energia in essi sprigionata ha il potere di guarire le persone… Ho parlato con un medico che me l’ha confermato,”

Sono fortemente dubbioso rispetto a quest’ultima affermazione e ho un atteggiamento sobrio, di relativo distacco, rispetto ai fasci di luce e i campi energetici, al potere taumaturgico attribuito ai nostri monumenti.

Voglio comunque un gran bene alle persone che ci credono.

Il fenomeno ha aspetti scientifici nel fatto che un numeroso gruppo di persone crede nell’importanza e nella veridicità di questi fenomeni, ne parla, spende tempo e risorse per assistervi e viverli. Essi appartengono alla cultura e dovrebbero essere studiati dall’antropologia e dalle scienze sociali, o meglio, dall’antropologia sociale..

In questo caso il metodo di studio presupporrebbe la ricerca sul “campo” (https://www.tesionline.it/v2/appunto-sub.jsp?p=15&id=649)  a cui segue il processo di “descrizione, analisi, interpretazione” (Aime , Il primo libro di Antropologia, 2008, Einaudi).

“Agli inizi del XX secolo l’antropologia si sviluppò in forme diverse in Europa e negli Stati Uniti. Gli antropologi europei si occuparono soprattutto dell’osservazione dei comportamenti e della struttura sociale, ossia delle relazioni tra i ruoli sociali (p.e. marito e moglie, o genitore e figlio) e le istituzioni sociali (p.e. religioneeconomiapolitica). Il metodo di osservazione di altre culture viene definito “osservazione partecipante”, che sta a indicare l’osservazione diretta e non passiva delle pratiche locali.

Gli antropologi americani invece si occuparono soprattutto dei modi in cui le persone esprimono la loro visione su se stesse e sul mondo che le circonda, soprattutto riguardo alle forme simboliche (arti e ai miti). Al centro della loro riflessione c’è la cultura, la sua trasmissione, innovazione, variazione. Questi due approcci spesso coincidono, ma le descrizioni che si danno dei medesimi fenomeni sono rimaste a lungo fortemente orientate dalla scuola di appartenenza. Attualmente gli antropologi sono ugualmente interessati a quello che le persone fanno e a quello che dicono. Tuttavia, con l’espressione antropologia culturale si tende a indicare una visione dell’antropologia più vicina all’approccio di origine americana.

… Fondamentale per l’antropologia degli ultimi decenni è stato sottolineare il carattere astratto e costruito non solo dei concetti di etnia e gruppo, ma addirittura del concetto stesso di cultura. Da alcuni questo viene addirittura contestato come non fondato e accusato di contribuire alla creazione di identità forti utilizzate in contrasti politici.”  (da Wikipedia)

Uno scienziato, un antropologo sociale, che volesse studiare il fenomeno si preoccuperebbe principalmente di acquisire elementi di base, descriverlo, eventualmente trovando ampia bibliografia in autori quali G.R.S., Scintu Aresu, etc. Si porterebbe sui luoghi per verificarne la veridicità in occasione degli eventi. Intervisterebbe i partecipanti per capire le forme culturali e le categorie a cui assegnarlo. Comparerebbe quindi il fenomeno con altri analoghi. Analizzerebbe tutti i dati raccolti e infine trarrebbe delle interpretazioni, momentaneamente conclusive.

Sul piano archeologico invece, credo che sia impossibile dimostrare il fatto che quei fori, quelle forme, fossero “taumaturgici” o, comunque, voluti per effetti rituali e religiosi.
Sono del parere, tuttavia, che nessuno possa e debba impedirne gli studi, la pubblicazione e la divulgazione, come invece è richiesto e, aggiungo, un archeologo curioso ne dovrebbe approfondire la conoscenza per verificarne la falsità eventuale.
La società preistorica era fondata su riti e forme di religiosità che possiamo solo immaginare, o ricavare per comparazione con altre culture antiche o moderne, o dedurre dai simboli dei manufatti e del paesaggio.
Questi di cui parliamo sono indizi che, oggi, possono indurre visioni e convinzioni che non dobbiamo trascurare ma anche fenomeni che in passato potevano essere reali e praticati.
Prendiamo l’esempio delle coppelle e del loro significato magico/religioso. E’ possibile che chi le ha realizzate credesse che la loro mancanza avrebbe procurato sventura o avrebbe negato benefici al clan… o semplicemente, per ironia, non gli avrebbe procurato alleviamento dell’odiato dolore del trigemino. Tuttavia ci capita, di converso, di vedere coppelle ovunque, anche quando si tratta di ordinarie conformazioni del calcare o del granito, di cui non essendo geologi non capiamo l’origine.
C’è chi studia queste credenze, questi eventi, la cultura che li esprime, scientificamente e con metodo , a prescindere dal merito, pur appartenendo ad accademie riconosciute.

L’atteggiamento contrario, che io definirei “a-scientifico”, consisterebbe invece nel rifiuto a priori dell’evento e della sua bollatura come rito a-scientifico (paradosso), da vietare o emarginare nello studio e divulgazione sugli organi di stampa “seri”.

Una censura della libera espressione, insomma.