da una segnalazione di Attilio Piras
Anno 1915
1. DECIMOPUTZU (Cagliari) — Scoperta di un ripostiglio di bronzi di età preromana a monte de sa Idda.
Ancora una volta, come ad Abini presso Teti, a Tadasuni, a Lei per la Sardegna, al caso fortuito la nostra scienza ed il Museo nazionale di Cagliari sono debitori del rinvenimento di un importantissimo ripostiglio di bronzi nuragici, con taluni oggetti di notevole carattere MICENEO.
In attesa di completare con le indagini i pochi elementi raccolti, mi limito qui a brevi cenni sulle circostanze e sulla località della scoperta, come anche sui caratteri di essa.
Negli ultimi giorni del 1914 due pastori di Desulo, Francesco Frau e Sebastiano Pranteddu, i quali erano a svernare con le loro capre tra Siliqua e Decimoputzu, nel Campidano di Cagliari, vennero in Museo a portarmi alcuni oggetti in bronzo di carattere nuragico (‘). Quando li ebbi acquistati ed ebbi così vinte le naturali diffidenze dei due montanari, seppi da essi che sul monte de sa Idda, tra Decimoputzu e Siliqua, sorgente sul limite della pianura campidanese, avevano rinvenuto una grande quantità di oggetti in bronzo.
Fedeli alla parola datami, il 1° del corrente anno essi ritornarono in Museo, consegnandomi una grossa bisaccia, piena di oggetti, interi e frammentati, in bronzo, tutti di età nuragica, dandomi anche ritrovo per il giorno 3 gennaio per indicarmi esattamente la località della scoperta e consegnarmi altri frammenti che essi avevano raccolto e messo in disparte, non potendo per il grosso peso portarmi tutto il materiale.
(‘) I due pastori, che, nella loro ignoranza della legge, erano venuti in città per fare esaminare se gli oggetti fossero d’oro e qual ricavo potessero trarne, furono guidati al Museo dal signor Romualdo Loddo, della R. Soprintendenza dei monumenti, e quivi consigliati a rompere quel suggello di mistero o di reticenza che tanto spesso circonda le scoperte archeologiche isolane.
Il 3 gennaio, per quanto contrariato da un tempo poco favorevole, fui al ritrovo, e con i due pastori salii sul monte de sa Idda, ricuperando interamente la suppellettile rinvenuta, e procurando i dati precisi sulla località e sul rinvenimento, che era il dono augurale del capodanno, offerto all’archeologia della Sardegna dalla buona fortuna.
La località della scoperta, come ho detto, è il monte de sa Idda, (monte del Villaggio), una dirupata costiera granitica, la quale sorge quasi a picco dal paludoso piano campidanese di Decimoputzu, lungo la linea ferroviaria da Cagliari tra Siliqua e Decimoputzu (Cagliari).
Tutta la costiera della brusca collina, che merita tuttavia il nome di monte per la qualità della roccia di cui è composta e per il carattere alpestre del paesaggio granitico, a pochi passi dall’acquitrinoso e malarico piano, è fittamente sparsa di resti di ceramiche, prevalentemente di età nuragica; sulla vetta sorge ancora un piccolo edifìcio di forma e di struttura nuragica, ma di scarse proporzioni, dal quale la vista si stende amplissima fino alle colline di Cagliari ed allo ampio golfo (ved. lo schizzo di pianta, fig. 1).
Pochi metri al di sotto della vetta, dove uno scheggione di granito si drizza ancora naturalmente, quasi un indice ed un segno, i due pastori desulesi, sempre investiti dalla fantasmagoria di un sogno di nascosti tesori, scavarono al di sotto di una pietra che risonava a vuoto, e rinvennero, in molti frammenti, un grossolano vaso di rozza argilla, di cui raccolsi alcuni pezzi, ed entro a questo la massa degli oggetti interi e frammentati, da essi ritenuti di oro. Il resto è noto.
Ho durato una certa fatica a smontare la fantasia dei due rinvenitori, riducendo la scoperta al suo valore umano, snebbiando fantasie ed illusioni ; né fu agevole di liberarsi dalle pretese di altri pastori, che avevano presentito, preveduto, sognato la scoperta, la quale aveva rapidamente assunto le proporzioni di un tesoro inaudito, di cui io era il rapitore. Ma la fortuna ed il salutare intervento dell’autorità dei bravi carabinieri di Siliqua salvarono, almeno ne ho la fede, l’ intero ripostiglio al Museo nazionale di Cagliari.
Presento qui in breve la descrizione del suo contenuto; quanto prima mi sarà possibile intraprenderò una sistematica indagine sul monte, tanto più che il terreno è di proprietà pubblica; intanto ricordo che la breve ricerca condottavi nella prima gita mi permise di raccogliere varii frammenti di scorie, pezzi di vasi in terracotta, e avanzi di bronzo, indizii tutti che lassù, in quella località sicura e forte per la sua posizione, poco discosta dai piani campidanesi, dove la vita nuragica si svolse ampiamente, prima dell’insediamento dei coloni fenici di Carales, si ebbe un’officina fusoria di età nuragica, la quale si giovò delle folte boscaglie di leccio che rivestivano ed in parte ancora rivestono tutta la catena granitica che da Siliqua, per monte Idda, si connette alle più alte costiere del monte Linas.
Il ripostiglio contiene:
n. 13 impugnature di spade;
» 51 frammenti di lame di spade;
» 2 pugnali ;
» 36 accette intere;
» 3 frammenti di accette;
» 2 scalpelli;
i 2 trapani ;
» 5 falci;
» 3 frammenti di falci;
» 3 cuspidi di lancia;
» 3 anse di vasi;
« 38 oggetti varii, alamari, occhielli ed altri oggetti indefinibili;
» 10 panelle di rame lenticolari e parallelepipede;
» 12 kg. di frammenti di panelle e frustoli di rame per la fondita.
Tali bronzi sono tutti di tipo e di forme nuragiche; quelli di tipo nuovo, o almeno non presentatosi sinora in Sardegna, per il carattere del metallo e della sua patina, per lo stile, o, meglio, per la tecnica metallurgica, sono senza dubbio protosardi, e prodotti dell’industria locale.
A questa convinzione sono venuto dopo il primo e sommario esame di questi bronzi, né credo che una ricerca più particolareggiata e minuta sarà per condurmi ad un risultato diverso.
Si tratta di prodotti locali, per quanto in parte collegati ed inspirati a modelli importati ; ma in nessun caso e per nessun tipo, sia di armi, sia di strumenti, io ritengo che siamo di fronte ad una diretta importazione di prodotti stranieri, né ad una servile imitazione di tali prodotti. La tecnica fusoria sarda, che nell’età dei nuraghi era perfettamente sviluppata e conscia di tutti i metodi e di tutti i gradi dei varii procedimenti metallurgici, foggiò i suoi tipi di armi, di strumenti, di ornamenti, assorbendo e modificando i modelli stranieri e adattandosi una speciale serie di tipi caratteristici, ai quali si attenne poi, con una specie di feticismo che diremo quasi rituale, quando attorno a tutte queste forme arcaiche (e, potremo dire, arretrate) del pensiero, della vita, della psiche sarda, si concentrarono tutte le energie della schiatta, in una lotta incessante e non ancora spenta, contro altre forme, altre concezioni della vita.
Le accette del ripostiglio appartengono a tipi svariati; sono però tutte di produzione locale, giacché per la massima parte sono fresche di getto ed hanno ancora le sbavature di fusione ed il tagliente ottuso. Abbiamo l’ascia piatta, robustissima, a margini convessi, e tagliente semicircolare; l’ascia allungata, a sporgenze sui lati (fig. 2); l’ascia a profondo solco alla base, con le due orecchiette alle costole, di tipo frequente nella penisola iberica; abbiamo l’ascia a cannone a sezione rettangolare, di grandi proporzioni, di tipo prevalente in tutte le regioni del Mediterraneo occidentale, dall’Andalusia alla Scozia, ma di produzione locale (fig. 3); abbiamo infine la vera e propria scure, ad un solo taglio ed a viera aperta, che si connette, più che ad altri tipi, alle scuri protoegiziane delle sepolture della valle del Nilo (‘).
(‘) Per i tipi delle accette in bronzo della Sardegna, cfr. Giovanni Pinza, / monumenti primitivi della Sardegna (Monumenti antichi dell’Accademia dei Lincei, voi. XI), pp. 170 e sgg. Per e ascie a cannone occidentali, Iohn Evans, L’dge du bronze, Paris 1882, pp. 116 e sg., figg. 129- 139, e pastini. Cfr. Dechelette, Manuel d’archeologie préhistorique ecc. II, pag. 248, fig. 84; pag. 252, fig. 88 e pauim.
I pugnaletti conservano il tipo arcaico dei pugnali a lama triangolare e fori per il codolo, tanto frequenti negli strati nuragici; così pure le punte di lancia non hanno novità di tipo rispetto a quelle offerte dalla stipe di Abini: solo hanno una maggiore sveltezza, accostandosi di più ai tipi delle cuspidi di lance cretesi.
II migliore interesse del ripostiglio è dato dalle spade, sventuratamente tutte raccolte in stato frammentario, ma tale da permettere la ricostruzione dei tipi, tanto più che rimangono le impugnature e le teste delle bellissime armi.
Finalmente con questo ripostiglio noi conosciamo la forte spada del guerriero sardo. I templi, le tombe, i ripostigli ci avevano sinora restituito a centinaia le fini ed esili spade votive, o piatte a costola, od a sezione rettangolare: i famosi veruti, armi da caccia o da voto, troppo esili strumenti in mano ad un valido e forte e combattente soldato. Ora, grazie alla scoperta di monte Idda, sappiamo quale arma impugnava il guerriero che gli antichi ricordano tra i più valorosi, disciplinati, combattivi del mondo. La spada, robusta e solida, a risalto mediano ed a fini bulinature, è per lo più incorporata nel manico, con cui forma un sol tutto; l’impugnatura che indica una mano fine, quasi femminile, ha per lo più i chiodi che dovevano fissare sull’anima di bronzo il rivestimento in legno, in osso o forse in avorio. Le lame non provviste di manico hanno una testa elegantissima, con i fori per l’infìssione del l’impugnatura.
È difficile di sfuggire alla prima impressione che noi proviamo, davanti a queste armi, tanto simili a quelle delle tombe di età minoica in Creta, massime alle belle spade della necropoli di Zafer-Papura, scavate dall’Evans (‘).
E l’immagine degli Shardana, assalitori dell’Egitto, ci balza subito dinanzi, impugnanti la corta e robusta spada di guerra.
Giova però fare giusta ragione di questo avvicinamento e temperare con severa indagine la prima impressione, per non essere da questa fuorviati, nello spazio e nel tempo (fig. 4).
Se è innegabile l’analogia delle spade di monte Idda con quelle delle tombe di Micene e di Creta minoica, non è però difficile di vedere che esse hanno una maggiore semplicità e praticità; si comprende che i Sardi, venuti in possesso di esemplari egei, li abbiano imitati, ma li hanno resi più forti e più semplici ; di una spada di lusso hanno fatto una spada di battaglia, con la quale dovette fare conoscenza, non sempre gradita, l’ invasore fenicio dapprima, punico poi (fig. 5). Data la fissità dei motivi di ogni genere entro all’ambiente sardo, la persistenza delle forme, delle vesti, come dell’ intima sostanza della vita sarda, noi non dobbiamo meravigliarci che tipi e modelli di armi, per loro natura tanto persistenti nel seno di ogni razza, si siano conservati dall’età micenea sino a quella a cui appartiene il ripostiglio di monte Idda, di qualche secolo più recente di quella.
Ma già sin da ora noi vediamo aperto un altro spiraglio che nella penombra della preistoria sarda conduce un filo della grande luce brillante sul cielo della civiltà egea; non chiudiamo a quello spiraglio la via per una imbelle restrizione mentale, e tanto meno per inchinarci ad una moda, ormai superata, che vuole esclusa la Sardegna dalla vita pugnace, fervidissima, dell’età che vide tanta copia di avvenimenti nel bacino del Mediterraneo, avvenimenti che, pur non essendo tutti registrati nei libri della storia, non furono, per questo, meno efficaci nello stanziamento dello successive civiltà, fiorite in piena luce della storia.
A me duole di essere in disaccordo di idee con altri studiosi, di cui altamente apprezzo il valore e l’acume. Ma, avendo io la fortuna di trovarmi più direttamente a contatto con i monumenti sardi, e di studiare alla loro fonte le sorgenti dei fatti che gli scavi e le ricerche vanno giornalmente portando alla luce, credo che il lasciare che tali fatti parlino in tutta la loro evidenza sia un servire a quella verità, a cui solo deve inchinarsi l’uomo di studio.
Le medesime considerazioni che ci sono fornite dallo studio delle spade di monte Idda scaturiscono anche dall’esame sommario degli altri oggetti. Così le falci, pure accostandosi a quelle dell’età del bronzo della penisola italiana (‘), hanno un carattere locale, sono più larghe e più pratiche (fig. 6); così le lame di sega, solide ed usate ; così gli aghi crinali, dalle impugnature robuste e dalla verga solida, che li rende atti a colpire come pugnali.
Anche le grandi anse di lebeti, se possono compararsi a quelle dei vasi in bronzo di Sicilia, e più ancora, di Creta minoica, hanno una decorazione a motivi geometrici o naturalistici, ma semplicissimi o germinati dalle imitazioni di esemplari empestici, la quale, come già osservai altrove, determinò la decorazione della ceramica eneolitica e nuragica sarda.
Ed all’Oriente egeo ci richiama anche il tendi-arco in bronzo (fig. 7), decorato nella parte superiore da una doppia spirale, la quale per rudezza di caratteri si collega a quelle date dalla ceramica della grotta di S. Michele d’Ozieri, e come queste, potrebbe essere ritenuta una germinazione locale, affatto indipendente da modelli importati ( 2 ), se non avessimo le decorazioni spirali dell’arcipelago di Malta e quelle della penisola iberica, le quali indicano le tappe della grande strada di diffusione di quel motivo decorativo, che si insteriliva e si imbarbariva nel suo graduale cammino verso l’Occidente del Mediterraneo.
A stabilire il carattere del ripostiglio: a chiarire la origine di esso, confermando le idee da me precedentemente espresse sulla metallurgia della Sardegna nuragica, valgono le numerose panelle di rame rinvenute nel vaso di monte Idda. Alcune sono intere, di forma lenticolare, pesanti da 3 a 4 chilogrammi ; altre sono spezzate in minuti frammenti; solo alcune hanno forma rozzamente rettangolare e dimensioni più grandi; nessuna però accenna alle forme a nskip] dei famosi pani di rame di Serra Ilixi, di provenienza egea (‘). Sono invece tutte panelle di rame di provenienza sarda, e fuse con minerale sardo; siamo quindi di fronte alla fonderia al ripostiglio di un fonditore che raccolse tutte le spade rotte di una sola tribù ed i frammenti di oggetti vari, che si preparava a rifondere ed a ridonare a novelle forme. Il non aver trovato alcun oggetto né punico, né tanto meno romano, nel ripostiglio, fa credere che esso fosse stato formato in piena vita nuragica, quando sulla vetta di monte ldda tenevano ancora saldo i Sardi primitivi, che qui ergevano le loro vigili torri di guardia, in vista del mare, in vista dell’acropoli caralitana, su cui non erano ancora piantati i tristi segni della signoria fenicia.
L’analisi chimica potrà provare se il rame di quelle panelle sia meno il rame di origine sarda, come tutto porta a credere. Ma sin da ora mi è grato di richiamarmi alle osservazioni da me fatte nelle antiche miniere di rame di rio Saraxinus, presso Gadoni, con la scorta dell’amico ing. Megy, ed ai dati raccolti nella fonderia nuragica di Ortu Commidu presso Sardara, per riferirmi solo alle più recenti scoperte, le quali provano in modo palese l’ intensa lavorazione dei giacimenti cupriferi sardi in età nuragica e la completa elaborazione metallurgica di tali minerali per opera dei sardi stessi, prima della penetrazione del più piccolo elemento fenicio o cartaginese negli intimi recessi della montagna sarda. Perciò l’orizzonte preistorico sardo non solo è peculiare e diverso da quello della penisola italiana, ma è diverso anche dal siculo, come ben disse il Colini. E la diversità è in gran parte dipendente da un fatto naturale: la presenza, in Sardegna, di quei giacimenti cupriferi, sui quali cadde l’attenzione dell’uomo neolitico sardo, che, non sappiamo ancora per quali impulsi, probabilmente egei, ne apprese il valore ed i metodi di sfruttamento. In Sicilia invece noi troviamo che le società locali, in piena vita neolitica, ricevono le spade e gli oggetti micenei, e li adottano tali e quali (‘). In Sardegna non è così; il modello egeo arriva anche qui, portato da quella corrente che dalla Sicilia occidentale, dalle baie di Drepano e Panormo giungeva agli amplissimi e sicuri golfi di Cagliari e di Palmas : ma qui trova un popolo ed una industria avviata che si impadroniscono del modello, lo trasformano, lo adattano ai propri usi, al proprio stile, e, così adattato, lo conservano per lungo volgere di generazioni. Per questo motivo lo studio dell’archeologia della Sardegna, più che di altri ambienti preistorici, si presenta difficile ed oscuro, per mancanza di elementi storici, e per la trasformazione che qui hanno subito gli elementi preistorici. Lo studio ulteriore di questo ripostiglio e delle rovine di monte Idda di Decimoputzu, spero potrà meglio chiarire queste idee ; io però sin da ora credo che non potranno di molto mutarsi, come credo fermamente che la conoscenza degli elementi raccolti tanto a monte Idda, quanto nelle miniere di Gadoni, quanto ad Ortu Commidu di Sardara, potrà completamente cambiare l’ordine delle idee ancor vigenti sulla Sardegna primitiva, idee fondate sopra una incompleta conoscenza dei fatti e sopra valutazioni assolutamente viete e, almeno per me, da abbandonarsi (*).
Il rame delle miniere sarde coltivate in età nuragica fu una grande forza per la Sardegna; ne plasmò il vigore e il carattere militare, rese possibile la sua resistenza, per tutta l’età micenea, per tutta l’epoca della talassocrazia fenicia, breve o lunga che fosse, contro una efficace penetrazione straniera. Con le armi delle miniere sarde i guerrieri Shardana tennero lungi dalla loro terra i pirati protogreci, i Fenici,
(‘) G. A. Colini, La civiltà del bromo in Italia, II. Sicilia (Bull, di Paletnol. Italiana,
anno XXX) 1904, pag 250 e seg. ; cfr. Vela del bronzo in Italia (Atti del Congresso Internai, di
Scienze storiche del 1903, Roma, 1904, pag. 61 e passim).
(*) Taramelli, Note di preistoria sarda (Bull, di paletnol. ital,, ann. XXXVI, 1912, pag. 75
e seg.; Archivio storico sardo, 1912, pag. 367); Ghirardini, La questione Etrusco (Prolusione
al corso di archeologia alla TI. Università di Bologna), 1914, pag. 27, n. 2. Cfr. G. G. Porro, In-
flussi dell’oriente preellenico sulla civiltà primitiva della Sardegna: Atene e Roma-, luglio-
agosto 19 15.