Tra lessico e storiografia – GLI INDIGENI TRA LE COLONIE? MA, IN SARDEGNA, VOGLIAMO SCRIVERE LA STORIA DI CHI?

di Francesco Masia

Letta una pacata discussione tra “laici” e archeologi, un punto mi è sembrato significativo: “indigeno” per gli archeologi è un termine che, se anche poteva avere in origine accezioni negative (e questo è sicuro: https://www.google.it/amp/s/unaparolaalgiorno.it/amp/significato/indigeno), sarebbe ora semplicemente parte del linguaggio tecnico, utilizzato ormai da molti anni con la piena consapevolezza del suo significato neutro. La civiltà degli indigeni, quindi, non si intenderebbe inferiore a quella degli stranieri.
Non c’è da dubitarne, naturalmente.
Viene però da notare che il termine è residuo di un tempo in cui parlare di indigeni nei villaggi di capanne, inquadrati sotto un capotribù coadiuvato da un consiglio degli anziani, era allineato e funzionale a una concezione ideologica che interpretava invece un’inferiorità e una pronta sottomissione a chiunque si fosse mai potuto affacciare sull’isola, sempre portatore di saperi ancora assenti: dell’arte di costruire i nuraghi, di lavorare i metalli, di navigare e quant’altro.
Tanto si potrebbe dire su quanto “interpretare” sia anche “suggerire”.
Ma negli anni in cui ci si rende conto del fenomeno Mont’e Prama (da ascoltare questa intervista del Prof. Raimondo Zucca: https://vimeo.com/188681182?ref=em-share), dell’antichità della navigazione e della metallurgia, della probabile identificazione con gli Shardana e dei rapporti mediterranei e continentali dei nuragici (per tacere delle tracce di scrittura), queste denominazioni possono giudicarsi stridere ormai non poco. Altra consapevolezza trasmetterebbe raccontare dei centri Sardi, delle loro abitazioni e dei loro edifici civili e religiosi, delle loro corti (e dei loro porti, dei loro opifici, … ).
Ora, concediamo pure che fin qui il discorso sia poco consistente, mosso (con buona pace per le parole dello stesso Prof. Zucca) da “ubbie revansciste” (inoltre è davvero un argomento molto complesso quello sulla possibile organizzazione del potere lungo l’antica Civiltà Sarda, per cui si passerà da apprendisti stregoni a dare l’idea di volerlo risolvere su due piedi con una nuova formula).
C’è però un’etichetta, quanto alla storia sarda, che mi sembra non possa proprio più essere giustificata, nemmeno da un’appartenenza al linguaggio tecnico: il periodo precoloniale.
Il termine nasce con l’intento, abbastanza scoperto, di giustificare apporti e influenze fenicie fin dai secoli precedenti l’attestazione di effettive tracce della presenza fenicia. Ora, però, le conoscenze risultano giunte a ricostruire (cito da “Il tempo dei Fenici”, Ilisso 2019; Maria Eugenia Aubet) che dal XV secolo a.C. i nuragici tra gli altri intrecciavano per il Mediterraneo quelle rotte internazionali che poi, nell’VIII secolo, avrebbero percorso con i Fenici, aprendo loro quei traffici già avviati. Si dice questo eppure, per non dismettere semplicemente il termine già in uso (tecnico), si conserva a proposito della stessa storia sarda la denominazione “periodo precoloniale”, dove quindi non si tratterebbe più tanto dei germi del periodo successivo, ma semplicemente della fase (teorica) precedente un vero periodo coloniale (come se si chiamasse prefascista non il periodo nel quale il fascismo ha gettato i suoi semi, bensì semplicemente il periodo venuto prima dello svilupparsi del fascismo): con la definitiva aggravante, in aggiunta, che ormai si è arrivati (almeno dal punto di vista della storia sarda) a interpretare il periodo degli insediamenti fenici in Sardegna come niente affatto “coloniale” (la Sardegna non era certo colonia; mi rifaccio allo Stiglitz dal volume di cui sopra); per cui l’etichetta “precoloniale” risulta allora mantenersi a individuare un periodo solo precedente quella che prima si intendeva una fase realmente coloniale e ora nemmeno più.
Potremmo ammettere il persistere di queste etichette, coloniale e (generosamente) precoloniale, dal punto di vista della storia fenicia, a inquadrare la crescita di Tiro fino al suo impianto di empori commerciali per il Mediterraneo. Ma la storia sarda sembrerebbe non riconoscere sé stessa appoggiandosi passivamente a queste scansioni temporali esterne. La storia sarda, anzi, potrebbe teorizzare una propria fase (“precoloniale”, volendo, e poi) “coloniale”, seguita da quella che, dal nostro punto di vista, dovrebbe leggersi come una joint venture sardo-fenicia.
In conclusione, pur con la consapevolezza che suggerire a una categoria altra di cambiare quanto le compete significa anzitutto farla irrigidire e arroccare (spostando quel cambiamento a chissà quando), oserei proporre venga abbandonata nelle scansioni della storia sarda, applicando appena un minimo di rigore logico, almeno (per cominciare) la denominazione di periodo precoloniale; ma pure, coerentemente, coloniale (quando si parli dei rapporti con i Fenici).