Testimonianze del tempo che fu

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di Giorgio Valdès “Le statue di pietra, non molto numerose e tuttavia diffuse in varie parti dell’isola, sono legate intimamente alla religiosità dei nuragici: provengono per la maggior parte da santuari, e riproducono in genere animali, soprattutto il toro, forse continuazione di quel culto per il partner maschile della Dea Madre già adorata in età prenuragica; la dea, al contrario, non viene rappresentata, ed è dato di coglierne soltanto un accenno nei betili con mammelle in rilevo (omissis…). Un altro soggetto ampiamente riprodotto, sia in statue di media grandezza che di dimensioni estremamente ridotte, è il nuraghe stesso, in prevalenza monotorre, costituito da un unico pilastrino, per cui per tali sculture si suole spesso parlare di “betili-torre”, anche in relazione al fatto che la loro collocazione abituale era all’interno della “capanna delle riunioni”, quasi sempre al centro del vano e su supporto collocato nel pavimento: una sorta di altare (un “betilo”, dunque) da cui la divinità vigilava ed era garante delle decisioni e dei patti che durante le riunioni venivano sanciti. Non mancano, tuttavia, raffigurazioni –anche parziali, ed anche in bronzo e di piccole dimensioni- di nuraghi complessi, con realistica rappresentazione del mastio svettante sul bastione turrito, degli spalti su mensole che coronavano la parte superiore delle mura, talora anche delle “feritoie” che si aprivano alla base. Queste raffigurazioni sono per noi di estrema importanza, poiché ci aiutano a comprendere come dovessero presentarsi, originariamente, le torri nuragiche, tutte pervenute sino ad oggi prive delle parti superiori. Nell’ultima parte del suo sviluppo, ormai in piena Età del Ferro, la civiltà nuragica riuscirà a produrre una grande statuaria antropomorfa, limitata tuttavia a un caso isolato, nell’entroterra di Tharros (nel santuario funerario di Monti Prama a Cabras –Or- (omissis…), forse in un periodo in cui andavano già formandosi delle aristocrazie “sardo-fenicie”, e lo splendore della civiltà nuragica era ormai solamente un mito. Proprio al mito di questi lontani antenati, ormai eroizzati e divinizzati, parrebbero rifarsi le grandi statue di Monti Prama, che riproducono in sostanza gli stessi guerrieri raffigurati nei bronzetti, con il loro armamento ricco di archi, elmi cornuti, scudi, guanti e altre protezioni per gli arti ed il corpo. Ancora in pietra, si segnalano due raffigurazioni di significato a volte chiaro –come lo sgabello della capanna delle riunioni di Palmavera, forse una sorta di piccolo “trono”- ma spesso incerto. Numerose sono, inoltre, le lastre di pietra riccamente ornate di incisioni che riproducono motivi geometrici, il cui significato magico-religioso oggi ci sfugge, e che sicuramente decoravano la fronte di edifici di culto”. Così scrive l’archeologo Paolo Melis nel capitolo intitolato “Statuaria di Pietra” del suo libro “Civiltà Nuragica”. Lavoro interessante, quello di Melis, che tra l’altro è riuscito a compendiare in un numero limitato di pagine l’excursus del nuragico, dalle sue origini al suo declino. Il citato capitolo, in modo particolare, contiene diversi e interessanti argomenti di riflessione. L’autore parla in particolare delle statue di Mont’e Prama, che da qualche tempo a questa parte occupano la cronaca a seguito dei nuovi, importanti ritrovamenti, ipotizzando una loro originaria collocazione in piena età del ferro e qualificandole inoltre come caso isolato. Oggi sappiamo che la tendenza prevalente è quella di retrodatarle, probabilmente intorno al IX secolo a.C. e inoltre occorrerebbe intendersi quando si parla di caso isolato, perché se i rinvenimenti riguardano solo un’area della penisola del Sinis, quest’area tende comunque a dilatarsi considerevolmente, a seguito di continue, appassionanti scoperte. Le analisi su campioni di materiale organico potranno comunque fornire, si presume in tempi relativamente brevi, datazioni e comunque informazioni più precise. Nell’articolo si accenna anche ad un modello in bronzo di nuraghe con mastio svettante sul bastione turrito, rinvenuto ad Olmedo e riportato nell’immagine allegata, che un altro illustre studioso, Massimo Pittau, assimila ad una lucerna (http://rinabrundu.com/2013/02/17/ballatoi-terminali-e-modellini-di-nuraghi-mai-esistiti/). A proposito di tale oggetto, è curioso osservare come dal suo basamento si dipartano cinque“propaggini”, posizionate sotto le torri, che convergono, saldandosi, su un piccolo elemento di raccordo. Quale sia la funzione di questo “armamentario” non è per niente chiaro, ma per alcuni si tratterebbe di una struttura d’ancoraggio a un sostegno litico. Ipotesi tuttavia non molto convincente, vista la sproporzione tra il modellino e tale presunto sostegno; salvo che i cinque elementi sottostanti il nuraghe volessero assumere l’accezione metafisica di raccordo tra il mondo terreno e quello ultraterreno. Se così fosse, lo stesso modellino potrebbe assimilarsi alle raffigurazioni incise su diversi vasi rinvenuti a Villanovaforru e a S.Anastasia di Sardara. In alcuni di essi, come quello in figura (Sardara), sono difatti riportati tre elementi (segnati in rosso) che sembrano riprodurre il prospetto del modellino in bronzo, con l’elemento di base, su cui convergono le cinque ramificazioni, che parrebbe effigiare l’acqua, rappresentata nel vaso dal simbolo della greca, di probabile derivazione geroglifica. Si tratta ovviamente di semplici congetture, che impongono pertanto il ricorso al condizionale.

Nell’immagine: il modellino bronzeo del nuraghe di Olmedo e un vaso di S.Anastasia a Sardara