di Giorgio Valdès
Chiedo clemenza se nei precedenti, nell’attuale e nei prossimi post ho parlato e parlerò dell’antico Egitto e dei rapporti che intrattenne con l’area mediterranea e con la nostra isola in particolare.
Molti esimi studiosi sostengono la “realistica” ipotesi che la Sardegna avesse intessuto intensi e frequenti rapporti con la terra dei faraoni: uno per tutti il professor Giovanni Ugas che di questi contatti ha riferito copiosamente, specie in due sue interessantissime opere: “L’Alba dei Nuraghi” e il più recente “Shardana e Sardegna”, edite rispettivamente nel 2005 e nel 2016.
L’Egittologia è stata il mio primo amore, ed anche se è evidente come questa considerazione non possa interessare ad alcuno, è altrettanto vero che l’ultra millenaria cultura nilotica ha lasciato una miriade di tracce scritte in carattere geroglifico, ieratico e demotico oltre ad importanti raffigurazioni, alcune o molte delle quali possono avere attinenza con le vicende della nostra isola.
Questo straordinario patrimonio testimoniale ha avuto inizio, probabilmente, nel corso della cultura di Naqada II, di cui abbiamo riferito succintamente anche in un recente post (se ne parlerà comunque anche prossimamente), e si è protratto, incrementandosi, nei secoli successivi e, per quel che ci riguarda, nelle epoche coeve alla nostra civiltà nuragica.
E’ del tutto manifesto che in assenza di documentazione scritta proveniente dal nostro territorio, gli indizi documentali provenienti da altre aree mediterranee e dall’Egitto in modo particolare, costituiscano “merce preziosa” per tentare di comprendere chi siamo stati, da dove proveniamo e quale ruolo abbiamo assunto, in tempi remoti, nei rapporti con le altre popolazioni del mondo allora conosciuto.
Tanto premesso, traggo spunto da quanto riferito da Widmer Berni e Maria Longhena nel loro libro “Una nuova preistoria umana – Ipotesi inedite sull’origine della Civiltà” (Pendragon 2019), ma anche dal precedente ed altrettanto interessante volume, pubblicato da Widmer Berni ed Antonella Chiappelli nel 2008, titolato “Haou-Nebout – I Popoli del Mare”.
Opere, entrambe, corredate da svariati ed autorevoli riferimenti bibliografici e da “illuminanti” traduzioni dal geroglifico da parte di eminenti egittologi ed orientalisti e che coinvolgono, con ottima probabilità, le vicende che hanno interessato la nostra isola per un lungo periodo e comunque sino alla fine dell’Età del Bronzo, o come scrivono gli autori, sino al suo “collasso”.
In questo nuovo lavoro i protagonisti principali sono ancora gli “Haou-Nebout”; dizione, quest’ultima, già conosciuta in periodo predinastico e comunque già esistente nell’Antico regno (inizio del III millennio a.C.).
ed interpretata in diverse maniere, una delle quali può sintetizzarsi con: “ciò che sta a Nord o che circonda il Nebout”; dove il termine Nebout potrebbe significare “isole che galleggiano”.
Si tratta comunque di isole poste ai confini settentrionali del mondo, in mezzo al mare , il “Grande Verde” degli antichi egizi. A questo proposito il celebre egittologo francese Jean Vercoutter ( 1911 –2000) scriveva che “Nei Testi delle Piramidi, così come nei Testi dei Sarcofagi e nei libri funerari posteriori, esse (le isole Haou-Nebout) sono legate al grande fiume che percorre il mondo infernale…” Ciò consente di ipotizzare che tali isole fossero in realtà ubicate a nord ovest dell’Egitto, dove si pensava fosse collocato l’Ade. E a questo proposito va osservato come il rito funerario egizio esordisse con la formula: “a occidente”, e comprendesse un attraversamento delle acque per raggiungere il sacro Amenti, posto nell’isola ritenuta regno di Osiride, signore eterno dei “Sekhet Hnw//Yarw” (I “campi di hanw”, dizione che sorprende per la sua similitudine, sicuramente casuale, con la nostra pianura). Maggiori indizi possono comunque trarsi dalla lettura del seguente articolo:
L’egittologa Alessandra Nibbi (1923–2007), nel suo “The Sea Peoples and Egypt” scriveva inoltre che “Il problema dell’identificazione degli “Haou-Nebout” è stato offuscato dalla tarda traduzione di questo termine come ‘Greci’, ma pur anche nella disponibilità ad un cambiamento nell’applicazione di questo termine in senso geografico, il problema è rimasto oscuro e senza speranza ad ogni livello”.
Per altro verso è risaputo che la tendenza pressoché generale è sempre stata quella di non considerare, con la dovuta attenzione e serenità, le isole che stanno nel mezzo del Mediterraneo occidentale, ed in primo luogo la più rappresentativa di esse: quella Sardegna che seppe esprimere una straordinaria ed antichissima civiltà, testimoniata dalle decine di migliaia di monumenti che costellano il suo territorio e dalla presenza (purtroppo spesso contestata), di quelle marinerie Shardana che unite alla confederazione dei Popoli del Mare, esercitarono nel Mediterraneo occidentale (come afferma il nostro archeologo Giovanni Ugas), “una leadership militare di lungo periodo, dal 1500 al 1200 e oltre avanti Cristo”.
Il disconoscimento del ruolo svolto dalla Sardegna nelle vicende del mondo allora conosciuto non può sorprendere, considerato lo scarso interesse storicamente riposto dagli “addetti ai lavori” nostrani nei confronti del “nuragico”, per decenni considerato espressione di una civiltà deteriore e di un popolo che solo la “colonizzazione” fenicia e le occupazioni degli invasori successivi avrebbero “acculturato”.
Dimenticarsi della Sardegna è un “vezzo” al quale non sfuggono neanche Berni e Longhena, autori del secondo libro citato all’inizio, non tanto perché essi vanno a ricercare gli “Haou-Nebout” nell’Oceano Atlantico ( non è detto che si tratti di un’ipotesi campata in aria, almeno per quanto si riferisce all’origine di questa etnia, argomento di cui si accennerà in un prossimo post), ma per non essersi mai interrogati sull’esistenza e sul reale ruolo svolto da una grande isola, nel cuore del Mediterraneo Occidentale, caratterizzata dal patrimonio monumentale probabilmente più vasto del mondo e “spot” dei più affascinanti miti e leggende.
Per tornare al termine “Haou-Nebout”, esso compare abbinato, in primo luogo, alla dizione egizia “Nove Archi”, spesso richiamata dagli autori di entrambi i libri.
Dal secondo dei quali riporto testualmente questo passo che ne illustra succintamente il significato: “ In ogni testo o iscrizione che canti le lodi del faraone, di cui l’Egitto è così copioso, è quasi di rigore che appaia l’augurio che il faraone tenga ai suoi piedi i “Nove Archi”. Sebbene molto frequentemente vengano interpretati come i popoli vinti o assoggettati all’Egitto, i “Nove Archi” sono in realtà le nove razze che rappresentano per gli Egizi l’intero genere umano.”
Vediamo allora quali erano questi popoli i cui nomi, da leggersi da destra a sinistra, sono inseriti nei cartigli geroglifici riportati nell’immagine allegata.
Nel primo cartiglio è riportata proprio la dizione “Haou-Nebout”, mentre negli altri a seguire (risparmio i termini egizi) sono rappresentati rispettivamente: Alta Nubia, Alto Egitto, Oasi, Basso Egitto, Deserto orientale, Libia, Nubia, Asia. Come scriveva Vercoutter nel suo “Les Haou-Nebout”, queste genti “Haou-Nebout” rappresentate in prima fila nei “Nove Archi”, “vennero dalle loro terre nelle isole che stanno in mezzo al Grande Verde”. Quindi perché scomodare l’Oceano Atlantico quando il “Grande Verde” era con ottima probabilità il Mediterraneo Occidentale. A parte notare che nei “Nove Archi” sono presenti diversi paesi nord africani e l’Asia (almeno quella parte di essa con la quale a quei tempi gli Egizi intrattenevano contatti di vario genere), mentre appare assolutamente paradossale l’esclusione delle isole del Mediterraneo occidentale, per “saltare” direttamente in Atlantico.
E questo a maggior ragione se si osserva come la Sardegna in particolare non sia “un’ochetta in mezzo al mare”, ma un’isola enorme che come attestato da svariate ricerche (tra cui quelle importantissime del professor Ugas) intrattenne intensi e lunghissimi rapporti con la terra d’Egitto.
Che poi l’origine più remota degli “Haou-Nebout” fosse nell’Oceano Atlantico è “un altro paio di maniche”, e come detto se ne accennerà prossimamente.
Vorrei concludere questo post (cui ne seguiranno alcuni altri, auspicando possano interessare chi li leggerà) con un altro brano, sempre tratto dal libro di Berni e Longhena, in cui si osserva che in Egitto si rispettava una regola da “applicarsi religiosamente”, che prevedeva una stretta corrispondenza tra le nove divinità dell’Enneade e le nove razze riprodotte nei “Nove Archi”.
“Secondo la stessa legge, poiché la funzione di generatore degli dei e dell’umanità era ricoperta da Ptah, primo dio dell’Enneade, un’analoga valenza doveva corrispondere al primo popolo o razza dei “Nove Archi”. E’ stupefacente che gli Egizi abbiano posto se stessi tradizionalmente al terzo e quinto posto (Alto e Basso Egitto) mentre è il misterioso “Haou-Nebout” a ricoprire questo ruolo fondamentale.
Quale ruolo avevano ricoperto gli “Haou-Nebout” nelle sfere ancestrali della conoscenza egizia e per quale similitudine e corrispondenza semantica li assimilavano a Ptah, padre degli dei e creatore del genere umano? Alla radice del genere umano l’”Haou-Nebout” sembrerebbe ricoprire un ruolo fondamentale.
E da questo luogo perduto alla nostra conoscenza che dunque sarebbero partite le migrazioni e le successive colonizzazioni determinando così il concetto di nove popoli da cui discenderanno tutte le genti? Questo e ciò che lascia supporre tale concezione egizia, già manifesta in tempi predinastici.”
Giusto per ipotizzare la collocazione di questo “luogo perduto”, mi permetto di riproporre un vecchio post che spero possa costituire motivo di seria riflessione (perdonate il mio sardo-centrismo).
https://m.facebook.com/NURNET2013/posts/2792233390855367
In allegato: la rappresentazione geroglifica dei “Nove Archi” con in testa gli “Haou-Nebout”.