di Giorgio Valdès
La dea madre dalle forme opulente, ben rappresentata tra gli altri negli idoli neolitici di Cabras (Cuccuru is Arrius), Decimoputzu e S.Giusta, perde gradualmente le sue forme manifestandosi, quasi astrattamente, nelle rappresentazioni piatte e stilizzate come quella di Portoferro (Sassari), Turriga a Senorbì e di Su Coddu a Selargius, sino a sparire del tutto in epoca nuragica. Secondo Giorgio Baglivi (“Il Sacro nell’Epoca Nuragica – dalla Dea Mater al Sardus Pater -”), ”la Dea Mediterranea di derivazione neolitica, non scomparve affatto in Sardegna nell’epoca nuragica, come parte dell’archeologia sostiene; diventò invece la Divinità Invisibile del panteismo mistico dei mondi arcaici….” E’ quindi la stessa tholos che può intendersi come rappresentazione aniconica della Dea, “luogo di adunanza, devozione, celebrazione e adorazione”. Personalmente concordo con l’interpretazione proposta da Baglivi, peraltro analoga a quella espressa in seguito da Nicola Porcu nel suo libro “Hic Nu Ra, storia di un’altra Sardegna”. Credo anzi che esista una profonda analogia tra il volume interno della torre nuragica, espressione del principio creatore femminile, assimilabile al ventre materno e quello del betilo (nome che deriva dal sumerico “beth-el”= “dimora di dio”), a sua volta rappresentativo del principio fecondatore maschile.
Nell’immagine: le “Madri Mediterranee” di Cabras, Decimoputzu, S.Giusta, Portoferro, Senorbì e Selargius; il prospetto di un betilo mammellato di Tamuli (Macomer) e la sezione verticale di una tholos nuragica.