Nuraghi, identità e del diritto di libera indagine

di Antonello Gregorini

Niente permea il paesaggio della Sardegna quanto i nuraghi.

La loro diffusione è talmente intensa e omogenea da caratterizzare il paesaggio.

E’ naturale che chi indaghi il paesaggio  ricerchi in esso le ragioni del proprio essere, eserciti una forma di religiosità (religere), che appartiene al processo di COSTRUZIONE DELL’IDENTITA’.

L’ analogo processo così come sviluppato dall’individuo è sviluppato dai gruppi, dalle organizzazioni e dai popoli. Chi vuole può approfondire su una bibliografia sconfinata che abbraccia trasversalmente tutte le scienze sociali e umanistiche.

 

Dan Floris, libero ricercatore, davanti al cancello del nuraghe Nuracale, Scano Montiferro

 

“… ogni archeologo deve sapere che la sua funzione professionale è quella di medium sacerdotale, autorizzato a profanare lo spazio sacrale dei morti per consentire un dialogo con essi… (…) Come ho già detto, l’archeologo, nel momento in cui viene investito dalla collettività del compito di farsi mediatore tra il mondo dei vivi e il mondo dei morti, deve assumersi le conseguenti responsabilità. Nella misura in cui noi archeologi sapremo assolvere correttamente e fino in fondo la delega etica che la collettività ci ha attribuito, la ‘fantarcheologia’ semplicemente si dissolverà da sé, nella propria ridicola inconsistenza.” Roberto Sirigu, archeologo (http://oubliettemagazine.com/2017/09/30/neon-ghenesis-sandalion-lintervista-allarcheologo-roberto-sirigu/).

“Sempre più l’archeologia cerca di comporre ricostruzioni interdisciplinari sistematiche e dinamiche, cioè appunto paesaggistiche. Fino a qualche tempo fa, l’archeologo considerava il paesaggio soprattutto come contenitore territoriale dei resti archeologici e come scenario dei processi storici, talvolta anche come attore coprotagonista di quei processi insieme all’uomo. “ A.Usai (http://pierluigimontalbano.blogspot.it/2017/09/archeologia-della-sardegna-paesaggi.html?spref=fb)

Tuttavia la scienza che più studia gli uomini, le loro relazioni, le relazioni fra gli uomini e l’ambiente, quindi il paesaggio, è senza dubbio l’antropologia. Le affermazioni sopra riportate appaiono, quindi, piuttosto deboli e di parte, sembrano voler assegnare il ruolo di casta sacerdotale a una sola categoria nella costruzione dell’identità storica.

“Riflettere sul concetto di paesaggio in una prospettiva antropologica significa pensare al paesaggio in quanto territorio di una comunità, spazio del vissuto, momento di relazioni,” Papa 2006 (http://www.rivistadiscienzesociali.it/antropologia-del-paesaggio-il-landscape-come-processo-culturale/)

 

Come in gioco di specchi le relazioni fra osservatore-fruitore; gli elementi del paesaggio; la modernità; la Storia; l’Archeologia monumentale e culturale; etc… ; si auto sostengono, generando continue dimensioni da indagare.

“Si dice che nel cielo di Indra esista una rete di perle disposta in modo tale che, osservandone una, si vedono tutte le altre riflesse in essa. Nello stesso modo, ogni oggetto nel mondo non è semplicemente se stesso ma contiene ogni altro oggetto e, in effetti, è ogni altra cosa.” (tradizione religiosa induista)

Se il paesaggio è in rapporto reciproco con chi lo osserva, nel senso che  l’uno determina l’altro, reciprocamente,  senza possibilità di confini reali, allora è vero che  per comprendere il nostro paesaggio archeologico, e il legame con i nostri avi, non possiamo rivolgerci solo all’archeologia, almeno quale branca di conoscenza sopra ordinante.

 

I misteri ancora irrisolti del paesaggio archeologico della Sardegna sono tantissimi, in particolare quelli legati alla cosiddetta Civiltà Nuragica. Manca ancora un quadro conoscitivo sufficiente fermo sulle ragioni che scatenarono quella “foga edilizia”; sulla funzione delle costruzioni, sulla simbologia più o meno evidente in essi contenuta.  L’assenza di documentazioni scritte ci impedisce, e forse ci impedirà per sempre, di avere una base di riferimento consolidata e univoca.

Non è una disputa fra archeologi e cosiddetti fantarcheosardi. Anche fra gli stessi archeologi si dibatte polemicamente sulle datazioni, sulle funzioni, sull’esistenza di più “culture nuragiche”, tradizioni architettoniche, sulle capacità organizzative e commerciali, tecnologiche e artistiche, sulle divisioni sociali e gli ordinamenti politici…

 

“Lo sviluppo territoriale delle comunità nuragiche ebbe luogo con la moltiplicazione dei luoghi di insediamento, senza alcuna tendenza alla concentrazione urbana. Ogni nuovo insediamento comporta un progetto di gemmazione, che richiede il trasferimento di un nucleo umano da un luogo già occupato a un altro non ancora occupato, che nello stesso tempo deve essere bonificato e colonizzato” A. Usai (ibidem)

“Per capire quali criteri determinarono la scelta del luogo dove edificare un nuraghe ci si deve basare sull’osservazione e sull’analisi di dati noti ricadenti in aree circoscritte come le vallate e alcune giare, con l’intento di individuare correlazioni comuni e ripetibili in analoghi habitat distribuiti in ambito regionale. Conseguentemente, il perno dell’indagine è lo studio geografico dei luoghi.  Nell’ indagine che segue sono stati considerati i parametri fondamentali del territorio come l’orografia, la qualità del fondo e l’idrografia, in quanto elementi naturali di questo habitat, che condizionarono i primi agricoltori per l’antropizzazione di quelle terre. I residenti realizzarono campi coltivabili, capanne, reti stradali, e le infrastrutture necessarie per permettere lo sviluppo sociale delle comunità.” Onnis – Montalbano (http://pierluigimontalbano.blogspot.it/2012/04/il-modello-montalbano-e-il-sistema.html)

“In ogni caso è ipotizzabile che nell’edificazione dei nuraghi si seguisse un sistema e niente fosse lasciato alla casualità.“ G. Valdes

Questi tre esempi, ma potrebbero esserne portati decine, mostrano quante siano le domande senza risposta e quante aspettative generino a ogni livello.

Questa è la ragione delle dispute, a volte eccessive e incivili, fra gli stessi archeologi,  antropologi, storici, ma anche fra questi e i cultori delle loro materie, appassionati, spesso privi delle necessarie basi culturali e della conoscenza del metodo scientifico ma, altrettanto spesso, preparatissimi e metodici, capaci di proporre vaste bibliografie, profonde descrizioni dopo anni di osservazioni.

Pensare che questa entropia informativa sull’identità che vogliamo dare al paesaggio, e quindi a noi stessi, sia negativa, appare quanto meno ingenuo. E’ verò anzi il contrario: è indice di vitalità sociale, di cui tutti dovremmo essere soddisfatti

Approfondire, studiare, fantasticare, indagare sulle proprie ragioni d’esistenza e sul loro rafforzamento è l’attività principale a cui l’uomo si è dedicato dopo l’essersi procurato il necessario per sopravvivere.

Invece c’è chi afferma “… La fantarcheologia continuerà a diffondersi in Sardegna e nel mondo, senza alcun dubbio, perché le forze che la alimentano sono profondamente radicate nella mentalità irrazionale che dilaga in tutto il mondo. Però è anche vero che da noi questo fenomeno è agevolato da molti personaggi, di cui conosciamo perfettamente i nomi e i cognomi, che operano nella politica e nel mondo dell’informazione-disinformazione… Anzitutto, giornali, riviste e televisioni dovrebbero tagliare ogni rapporto coi fantarcheosardi e dar spazio e vera libertà di espressione ad almeno qualcuno dei tanti giovani laureati in archeologia, in storia e in tante altre discipline umanistiche e scientifiche, che potrebbero fare i mediatori del sapere accreditato verso il grande pubblico. Usa (ibidem)

Si assiste quindi a una demonizzazione dell’attività di ricerca libera e individuale, per un’affermazione di casta (gli studiati) che a mio avviso è semplicemente assurda e incomprensibile, perché tende a  negare il diritto di indagine, a volte con la violenza delle parole e le offese supponenti, di espressione delle proprie idee e di COSTRUZIONE DELL’IDENTITA’.